MARSEILLE



Dominata dalla mole artistica ma anche fisica di Gèrard Depardieu ha preso il volo la prima produzione francese di Netflix, una serie che tenta di tradurre con linguaggio europeo il taglio delle serie anglo-americane e di riallacciarsi a un tipo di tematica di successo (House of cards). Diciamo subito che la marca francese è ben evidente, sia nella costruzione, che alterna brevi frammenti a scene distese, sia nella fotografia e ambientazione che giocano molto sull’architettura vecchia-nuova di una città sostanzialmente inedita come Marsiglia, sia nel disegno dei personaggi, anche un po’ troppo “tipici” e prevedibili. 
 Il soggetto è basato sulla competizione elettorale che vede rivali il vecchio leone, disposto, per l’avvenire della città, a raddoppiare il suo mandato e il suo delfino divenuto un agguerrito rivale. Ma nel gioco entrano, come è ovvio, il crimine organizzato nei suoi intrecci con la politica, profittatori e faccendieri nonchè la nuova Francia, quella giovane e quella mista, figlia degli immigrati arabi e della cultura rap. Il tutto ambientato in una serie di scorci e location che rispecchiano un’urbanizzazione a volte degradata ma anche i siti moderni e ammiccanti della nuova Marsiglia, e una periferia che somiglia un po’ a quella ritratta da Luc Besson nei suoi film sulle banlieu ma frequentata da gaglioffi un po’ di maniera. Del resto anche altre figure non si sottraggono ai cliché e appaiono lontani dalle precise e incisive caratterizzazioni delle serie anglo-americane nonché di quelle del Nord-Europa. 
Ma la novità sta nel puntare su una vicenda unitaria e compatta che non si spezza in troppe seconde storie sfuggendo alle logiche più logore della serialità in progress. La storia pubblica e la storia privata sono strettamente connesse e interferiscono in maniera furba e gli autori non rifuggono addirittura dal far uso di una buona dose di “melo”. Da notare l’insistenza davvero eccessiva di scene erotiche, ammannite con inconsueta spregiudicatezza: il famoso aspirante sindaco è un assatanato di sesso, che usa anche e spesso per fini politici ma non solo. E la figliola del vecchio sindaco non è certo da meno. 
La critica è stata ingiustamente e apoditticamente feroce nei confronti di questa produzione che vuol essere sostanzialmente un serial popolare e di consumo ambientato e sostenuto – se possibile - da una storia tutt’altro che futile, raccontata con perizia e spregiudicatezza tutta francese. Critica che, pur con i rilievi negativi che abbiano seminato qua e là, non condividiamo assolutamente.

BLOW



La storia di un trafficante di droga, legato al cartello di Medellin e attivo negli anni Settanta e Ottanta, raccontata dall’a alla zeta, come si usava una volta. 
Tratta dal romanzo di Bruce Porter sulla vita di George Jung, bimbo promettente, poi giovinetto intraprendente, poi spacciatore al dettaglio e all’ingrosso. Gli anni d’oro, i suoi anni da nababbo, i contatti con il “cartello” colombiano e con Pablo Escobar, l’apertura del mercato americano della cocaina, i tradimenti a ripetizione da parte dei cosiddetti amici si susseguono nel film come le pagine veloci di una scrupolosa agenda. 
E Johnny Deep, appassionato di trasformismo come sempre, segue con la sua faccia polivalente e un abile trucco, le fasi e le vicende del personaggio, dall’infanzia alla lunga prigionia solitaria della maturità. Gli funge da ottima “spalla” Ray Lotta che interpreta suo padre, mentre Penelope Cruz, non ancora rinata dal bisturi, si limita a una breve magnetica presenza. Cosa vuoi eccepire? La trascrizione è più che corretta, l’interpretazione esemplare, la storia interessante e stimolante per il regista Ted Demme. Resta un po’ l’impressione di un compito in classe svolto con diligenza ma senza questa assoluta urgenza e impellenza. Le vicende, in gran parte risapute, saranno esplorati con più intensa verità nell’ottima serie Netflix “Narcos”.
Per la cronaca George Jung è uscito di galera nel 2014, per buona condotta, un anno prima della scadenza della pena, e sua figlia Christina, toccata da questo film del 2001, ha finalmente ripreso i contatti con lui.

TUTTI PAZZI PER L'ORO



Di recuperare questo film del 2008 stavolta potevo farne a meno.
Eppure si presentava come una tipica brillante avventura con risvolti sia comici che sentimentali: “tutti pazzi per l’oro”, alla ricerca del favoloso tesoro scomparso in un galeone spagnolo affondato nel 1715, in un film girato nel mare azzurrissimo e trasparente delle Queenlands in Australia, fra avventurieri goffi e ignoranti, giovani spericolati (Matthew McConaughey e Kate Hudson), e inoltre e un po’ svanito (Donald Sutherland) con al seguito una giovane simpatica assistente. Ma i due giovani coniugi litigiosi si accorgono ben presto di non essere i soli interessati al prezioso relitto. Avventure, scazzottate, caccia subacquea, colpi di scena a bizzeffe, fughe in scooter, variazioni grotteschi e presumibilmente comiche. 
C’è di tutto ma il film non decolla e il divertimento neppure, a dimostrazione che non basta elencare trovate a bizzeffe su un pezzo di carta (leggi sceneggiatura) per fare un film che funzioni. Colpa del regista Andy Tennant innanzi tutto, che funge da trascrittore di gag che non scattano, e colpa dei due protagonisti, un McConaughey che fa di tutto per mettere in mostra il suo fisico atletico e in bellavista i suoi muscoli, e una Kate Hudson che cerca di riprodurre copiandole pedissequamente la mimica e le mossette di sua madre Goldie Hawn ma senza averne la capacità e la classe: per questo film ottenne il meritato Razzie Award quale peggior attrice dell’anno!

VOGLIA DI RICOMINCIARE



Che mostro di bravura è Robert De Niro! In questo film del 1993 diretto da Michael Caton-Jones e riproposto ora da Netflix, Bob è un patrigno impossibile che tiranneggia il figlio di sua moglie, un Leonardo Di Caprio giovanissimo e un po’ ribelle che vuole sfuggire alle sue manesche prepotenze e più ancora a una soggezione che non gli lascia margini e ne frustra le aspirazioni. Un film che si rivela il biopic dello scrittore Tobias Wolff, autore della sceneggiatura tratta dal suo romanzo autobiografico, e che vive tutto sulla bravura dei suoi interpreti, tale da rendere credibile e drammatica una storia di soprusi come ce ne possono essere tante. Siamo in America negli anni Cinquanta, gli anni dell'ottimismo. La guerra è finita, l'economia è in crescita, gli uomini sono tornati a casa e tutte le regole stanno velocemente cambiando. 
De Niro giganteggia, istrionico, prepotente e violento, in simbiosi con il personaggio e insieme criticamente brechtiano. Leonardo Di Caprio e l’altrettanto brava Ellen Barkin non sono da meno, ma gli ruotano fatalmente intorno come satelliti. 
Un personaggio, quello di De Niro, da allineare alla gamma dei suoi maggiori, dagli anni del secondo Padrino che lo rivelò alle interpretazioni in TaxivDriver, di Jack La Motta, di Al Capone, di Frankenstein eccetera... Peccato che un attore così grande, della generazione dei compagni di Scorsese, col quale ha girato ben otto film, sia ormai costretto in ruoli spesso discutibili di prestigioso cammeo. Ma sic transit gloria mundi.
Il film di Caton-Jones costituì anche la definitiva affermazione del giovanissimo Di Caprio che, per questa sua esibizione, ottenne un’autentica pioggia di premi, consacrandosi divo in crescita.

TRAPPOLA IN ALTRO MARE



Controfigura di Sean Connery nei primi 007 – almeno secondo la vulgata, ma in realtà coordinatore degli stuntman - Steven Seagal ha poi debuttato come attore esperto in arti marziali, ci ha provato gusto e, con il passare degli anni, è divenuto un instancabile produttore-interprete di film-movie, sempre più massiccio e ingombrante ma risolutamente impegnato in situazioni e azioni ripetitive quanto e più di una serie televisiva di second’ordine. 
In questa “Trappola in alto mare” (Under Siege), che Netflix ci ripropone a 24 anni di distanza dal suo più grande successo al botteghino, Steve è ancora giovane e aiutante, le sue non eccelse capacità artistiche non si sono ridotte all’unica imbronciata espressione di cui fa sfoggio negli ultimi film, riesce addirittura a sorridere qualche volta e soprattutto si muove e combatte in modo credibile, muovendosi fra nemici di ogni risma: una schiera di cattivissimi alla conquista della storica corazzata Missouri che, carica di Polaris a testata atomica, sta avviandosi all’ultimo viaggio trionfale. Cattivissimi agli ordini di un Tommy Lee Jones non ancora assurto ad eroe buono ma estroso psicopatico un po’ alla Joker di batmaniana memoria, nonché di Gary Busey, ancor più psicopatico, assistiti da un Colm Meaney stinto “consiliari” finanziario. 
Sparatorie, duelli, mitragliate a gogo, coltelli che volano, sottomarini che emergono, cannoni, siluri che partono, mentre a distanza un consesso di politici, inetti e impotenti come da copione, attendono che il nostro Steven – improbabile cuoco per l’occasione – sbrogli la complicata matassa. Quando, come in questo caso, i film d’azione funzionano non c’è granchè da rimproverare loro e un pomeriggio divertente è garantito. Non manca neppure, fra tanta mascolinità, una graziosa biondina, scritturata per uscire dalla solita torta e promossa a guerrigliera indomita al fianco del corpulento eroe. 
A proposito di questo film la cronaca cattiva ricorda due pettegolezzi passati alla leggenda del gossip: Tommy Lee Jones, a riprese finite, dichiarò che non avrebbe mai più lavorato con il buon Steven e Colm Meaney, uno dei cattivi, lo definì “il peggior attore al mondo”.

DESCONOCIDO - RESA DEI CONTI



Non è detta che per fare un film ci voglia un’idea originale. Tutt’altro. Ci sono certi schemi, certe situazioni narrative che funzionano sempre, comunque le si rigiri. 
Prendete il caso di uno stimato direttore di banca che sta portando i due figli a scuola quando gli viene intimato via cellulare da uno “sconosciuto” di fargli trasferire sul conto una grossa somma, altrimenti la macchina salterà in aria non appena qualcuno cercherà di sollevarsi dai sedili. Non somiglia tremendamente al soggetto di “Speed”, di “Taken”, di “In linea con l’assassino” e di tanti altri “action movie” che abbiamo visto? Eppure lo svolgimento, la narrazione è imprevedibile ed emozionante. I tentativi disperati dell’uomo per rimediare i denari e sventare il ricatto, le difficoltà impreviste, gli ostacoli sempre nuovi, gli interventi esterni che rischiano di vanificare i tentativi dello sfortunato conducente, tutto un seguito di avvenimenti che scandiscono il film in due parti: la prima sostanzialmente d’azione, la seconda di suspense. 
Non vorremmo raccontare oltre per non togliere allo spettatore il piacere di seguire questo film, mai banale e scontato, che punta sulla tensione ma anche e soprattutto su pochi incisivi personaggi: un padre disperato – l’ottimo Luis Tosar - che si batte da leone, una adolescente che non vuole abbandonare il genitore, un bambino ferito e, nella seconda parte, la poliziotta-artificiere. Pochi personaggi ma compiuti, interpretati e tratteggiati con vigore e verità, seguiti nella loro evoluzione psicologica e nei reciproci rapporti. 
Un ottimo film, diretto dall’esordiente Dani de la Torre, che ha anche il merito di porre, e non in modo surrettizio, il tema molto attuale dei clienti rovinati dalle disinvolte promozioni bancarie mediante la vendita di titoli tossici, e possiamo chiamarle anche frodi. Non ci stupirebbe che gli americani ne realizzassero quanto prima un furbo remake, con un grosso budget e qualche divo famoso, secondo il loro collaudato costume. Guadagneremmo un ennesimo sapiente film d’azione ma ovviamente privato di quel radicamento tutto spagnolo nei luoghi, nelle situazioni, nei personaggi. Ma è grazie a questa radicamento che il film riesce a superare le strettoie del ”genere” per diventare un’opera a tutto tondo, sceneggiata orchestrata e interpretata con classe.

LUTHER



Ho terminato di vedere anche l’ultima stagione, la quarta, di “Luther”, composta da due soli episodi, una serie poliziesca, sui generis quanto basta, come quelle che piacciono a me, un poliziesco “all’americana” ma ambientato a Londra e targato BBC, con un protagonista tormentato, brillante e acuto quanto impulsivo e irascibile, che travolge suo malgrado chi collabora con lui. Luther distrugge anche chi cerca di salvarlo, come Alice Morgan, assassina dei propri genitori con la quale, per una sorta di reciproca fascinazione, ha un ambiguo e controverso legame di amicizia. 
Non un poliziotto corrotto come tanti che ci racconta la tv e più ancora il cinema, ma un poliziotto sopra le righe, un uomo di legge che non segue sempre le procedure, talvolta vendicativo come un criminale, una sorta di “cavaliere oscuro”, di torturato vendicatore oberato da sensi di colpa e da un cupo pessimismo. Non per nulla lo troviamo immobile sul tetto di un grattacielo, intento a fissare il vuoto: non somiglia forse al tenebroso Batman appollaiato sui tetti di Gotham City? E la sua Londra notturna non è forse una Gotham densa di pericoli mascherati, di oscure reminiscenze e di incombenti rimorsi? 
Un personaggio questo Luther che si è saldato indissolubilmente al suo interprete, Idris Elba, attore inglese di genitori africani, attivo in teatro e tv, nonchè noto DJ. Le numerose puntate della serie, ideata e scritta da Nell Cross, sono dirette – come sempre avviene in programmi del genere – da vari registi che conservano una singolare unità di stile, privilegiando le atmosfere sull’azione, curando i personaggi e dando un taglio caratteristico e non convenzionale alle inquadrature. 
Direi che il marchio BBC si fa riconoscere anche in questa incursione su un tematica tutta americana, per una qualità di scrittura senza cedimenti. Ci sarà una quinta stagione? Può darsi.

POWER AND BEAUTY



Judith Exner, un’avvenente enigmatica signora, si trova davanti alla Commissione d’inchiesta del Senato degli Stati Uniti che la interroga sui suoi rapporti tempestosi con uomini di potere. Che ha combinato di pericoloso questa donna? Un flashback che dura tutto il film ci informa dovutamente. La bella e seducente fanciulla è caduta vittima di almeno “tre errori” – come li chiama lei - innamorandosi successivamente di un giovane attore farfallone, William Campbell, che sposa e da cui divorzia, in secondo luogo della “voce” per antonomasia, cioè del grande Frank Sinatra, e infine di un giovane senatore, tale John Kennedy, che aiuta - per non farsi mancar nulla - a stabilire rapporti pre-elettorali con una nuova fidata frequentazione, Sam Giancana, fra le cui braccia affettuose riparerà quando l’onnipotente Edgar G. Hoover, capo della CIA, imporrà al Presidente Kennedy di interrompere la tresca usando la rituale arma del ricatto. 
Una storia aggrovigliata quanto inedita, svelata dalla diretta interessata solo molto tardivamente in un libro di memorie, “My story”. Una storia che una donna regista, Susan Seidelman, la stessa che fece debuttare Madonna in un film piuttosto bruttarello, narra con accenti e modalità da romanzo rosa, quelli che un tempo da noi si chiamavano “alla Grand Hotel”, trasformando la tutt’altro che fragile e sprovveduta bellezza nella vittima di un amore appassionato e spassionato con il grande Presidente. Ma è successo proprio così? 
La vicenda, anche se narrata con gli strumenti della più fragile biopic televisiva, è singolare e - a quanto ne so io - inedita. La si segue con una certa curiosità, anche se la ricostruzione ambientale è approssimata e gli attori che si calano in personaggi di tanto peso sono fragilissimi, a cominciare dalla canadese Natasha Henstridge, bella e volonterosa quanto carente in fatto di carisma. Frank Sinatra calca sempre il feltro come nelle cover di molti suoi dischi per evitare di farsi confondere con qualcun altro e il grassottello interprete di Kennedy fa quello che può. Marilyn appare solo di sfuggita, in un paio d’immagini di repertorio, fortunatamente non mediata da un’attrice. Che dire? A chi ama gli sguardi sul nostro passato questo film-tv del 2002 potrà interessare. Come leggere una pagina di storia riassunta in un pulp. Ed è già qualcosa.

END OF SUMMER



Film targato Showtime del 1995 che ora ci ripropone Netflix. Storia romantica di un amore appassito, interpretato da una Jacqueline Bisset appassita anch’essa, e collocato in una Saratoga fine-ottocento, fra nobili villeggianti annoiati e piccoli scalatori sociali in abiti religiosi. Ambientazione di fine estate con le foglie che cadono e le rose che fioriscono per poi sfiorire fatalmente, arredi curati e attendibili ma non in modo spasmodicamente ineccepibile. E una cura dell’atmosfera, nel raccontare una storia scontata fin che si vuole, ma non priva di un certo fascino. Non manca neppure il famoso treno di Le Ciotat (1895) che irrompe dallo schermo ad ufficializzare la nascita del cinema e terrorizzare i villeggianti. 
Romanzo al femminile scritto diretto e prodotto da una donna, Linda Yellen. Se fosse stato ambientato ai nostri giorni non si sarebbe certo distinto da un romanzo cosiddetto rosa, ma collocato a fine ottocento, fra amori leciti e illeciti, seduzioni e rimpianti, tutto diventa più plausibile e i drammi si stemperano in un tono narrativo gradevole anche se un po’ asmatico, nonostante il tentativo di vivacizzarlo con qualche scena porno-soft. 
Jacqueline Bisset interpreta con finezza sadicamente autobiografica il proprio tramonto di donna, accanto a lei quel Peter Weller che si era già calato nello scheletro meccanico di “Robocop” nonchè un fragile Julian Sand e un agguerrita, sfrontata Amy Locane.

SPY TIME - ANACLETO AGENTE SEGRETO



Nei lontani anni Sessanta, quelli della prima apparizione del fantomatico 007, fiorirono anche le parodie e le imitazioni. Il tono realistico-paradossale delle avventure dell’agente al servizio di Sua Maestà sembrava favorire – e infatti favorì - le più impensate o prevedibili variazioni. Da noi in Italia ci pensarono Lando Buzzanca e finanche Franchi-Ingrassia. In Francia ci fu la variazione antesignana di Belmondo e quella tardiva di Dujardin. 
Mancava la Spagna, che giunge ultima all’appuntamento con questo film allegro, tratto da un noto fumetto iberico degli anni Sessanta e che si apre con uno 007 attempato, serrato nello smoking d’ordinanza, aggirantesi in uno sconvolgente scenario naturale reperito in Giordania. Da lì il nostro viene catapultato in Spagna dove fa il fabbricante di salsicce ed ha un figlio pavido e scansafatiche, nato stanco. E via con la sfida furibonda, a suon di mitragliate ed esplosioni, con il suo eterno rivale e relativa banda di scagnozzi arabi. 
Ci si può ancora divertire facendo il verso e lo sberleffo agli 007? Parrebbe di sì, intanto perché il mito del superagente continua grazie alla periodica uscita cinematografica di nuove avventure, anche se l’odierno interprete non ha l’aplomb di quanti lo hanno preceduto. E poi perché il filmetto spagnolo ammicca ma non si limita a far la parodia. L’avventura paradossale – ma non demenziale - resta confinata sul piano del divertimento leggero, a base di sparatorie un po’ da videogioco. E poi perché questi attori un po’ strampalati - il vecchio agente sempre sulla breccia e il giovane che, scoperto il mestiere segreto del padre, si accinge a seguirlo - sono bravi e simpatici. E il gioco non sarà tremendamente originale ma può dirsi riuscito, proprio per questo suo tono di divertimento che corre velocissimo, senza essere mai oppressivo né eccessivo. 
Il film, diretto nel 2015 dal giovane Javier Ruiz Caldera, ha fatto man bassa di Premi e nomination in tutte le competizioni spagnole e non solo. Netflix ce lo propone in lingua originale con sottotitoli.

THE BRIDGE



C’è un aggettivo non troppo usato, “algido”, che possiamo rettamente utilizzare per definire storia, ambienti, personaggi e immagini di questa serie coprodotta in tandem da Svezia e Danimarca. Soggetto su misura: a metà del ponte di Oresund che divide le due nazioni viene ritrovato un corpo diviso in due, metà sotto la linea e metà sopra: si scopriranno poi appartenere ad un politico svedese e ad una prostituta danese. Quindi la necessità di una collaborazione stretta fra le due polizie. E parte la vicenda con due personaggi-base: la poliziotta svedese, fredda e analitica, priva di capacità sociale, è un vivente codice di regole da manuale, un robot che amministra senza sentimenti il proprio lavoro come i suoi appetiti sessuali; e il poliziotto danese, altrettanto disinvolto nelle pratiche sessuali ma più rotto agli espedienti necessari per mandare avanti il lavoro e inoltre capace di provare empatia in ogni situazione e per chiunque. 
La serie procede in modo interessante, direi che a tutt’oggi è il ritratto più commestibile e insieme eloquente di un mondo nordico, algido appunto nella vicenda, nei suoi eroi freddamente stralunati, nella sua violenza asettica e inoltre nei moduli del racconto, piano e ponderato, nel colore desaturato delle immagini, nel taglio molto singolare delle inquadrature che, nella loro voluta staticità, offrono dei paesi del Nord-Europa un ritratto, vorrei dire una fotografia inconsueta, riuscendo a leggere e fissare atmosfere e architetture in modo esemplare. Dunque più di un motivo d’interesse.
Ovviamente la serie è stata rifatta in America sfruttando il confine Messico-USA, nonché in Europa utilizzando il tunnel che unisce Francia e Inghilterra: insomma un delitto a metà strada sembra una ghiotta occasione da non perdere per varare una coproduzione.

GETAWAY - VIA DI FUGA



Gli inseguimenti automobilistici sono una dei piatti forti del cinema, direi l’unico accadimento non ripetibile né proponibile in teatro, in pittura o in musica. Non è possibile trascrivere la velocità se non con la velocità. I Keystone Cops, gli strambi inetti poliziotti delle prime comiche cinematografiche di Mack Sennnett, furono il primo esempio di pazzo inseguimento cinematografico, seguito poco dopo dai treni impazziti di Buster Keaton e così via. Negli anni Settanta, grazie alla squadra acrobatica di Remy Julienne, si cominciò a far le cose sul serio. E poi naturalmente gli americani e, per venire a tempi più recenti, la tetralogia di “Taxxi”, la trilogia di “Transporter”, e poi ancora “Ronin” e, alla televisione, la serie tedesca “Squadra speciale Cobra 11”. 
Ma “Getaway-Via di fuga” li batte tutti: un film che è solo una lunga, inesorabile, drammatica corsa automobilistica, un duello all’ultimo metallo fra la macchina e tutto il resto, pedoni, palazzi, pubblici mercati e soprattutto altre macchine targate Polizia. Una sagra dell’autoscontro e della carambola. Il tutto innescato e dominato dalle istruzioni folli che il povero autista riceve via telefono da qualcuno di cui ignora il volto e che, tenendo in riscatto sua moglie, gli intima, per salvarle la vita, di obbedire ciecamente ai suoi apodittici diktat. Il folle gioco continua per novanta minuti, arricchito dalla presenza di un secondo personaggio, la giovanissima coinvolta nella corsa che diverrà – ma alla fine, molto alla fine - l’elemento risolutore della storia. 
Che dire? Lo spettatore esce stordito da questa maratona di autoscontri ma non deluso, il gioco riesce e la magia dello schermo rende il tutto molto realistico e avvincente, prendendo le distanze dagli scontri cruenti e meccanici del videogioco: questo è forse il suo merito maggiore. Il film è stato girato nel 2012, prevalentemente in Bulgaria, e diretto da Courtney Solomon. Ethan Hawke, eroe solitario, vince la sfida di interpretare l’intero film al volante e di dare credibilità alle sue angosce, accanto a lui la giovanissima Selena Gomez se la cava alla grande. E il gioco riesce per lo meno sul piano di un avvincente spettacolo che lascia un po’ senza fiato.

BEYOND THE CALL



Oltre che una guerra dalle proporzioni spaventose, il Vietnam (1957-1975) procurò un’ondata di film, negli anni Ottanta, quasi sempre di fiera opposizione a un conflitto sciagurato da cui l’America era uscita sconfitta, sul piano militare e su quello umano e di cui subiva le conseguenze sociali e psicologiche. Per la prima volta un esercito regolare, in divisa, si era trovato travolto e sconvolto di fronte a una guerriglia di popolo, e i regolari si erano trovati inadeguati, costretti  a ricorrere a metodi “barbari”, inumani che facevano regredire di cento anni le conquiste civili e i criteri di umanità. Uomini sottoposti a una pressione indicibile, costretti a divenire non più combattenti ma assassini. La maggior parte di questi film fu di fiera opposizione, un’opposizione variegata, dai colori dell’età dell’acquario (“Hair”, 1979) sino a “Nato il 4 luglio” (1989)  e analoghi. 
In coda a questa grande ondata si inserisce il piccolo film del 1996, rivisto ieri su Netflix, un film decisamente di serie B, che utilizza la presenza di un'unica attrice di cartellone, Sissy Spacek: gli ultimi giorni di un  condannato a morte, ex-reduce dal Vietnam. La donna, suo amore d’infanzia, scopre la notizia sul giornale e si allontana  dalla famiglia per tentar di convincere l’uomo a tentare l’ultima difesa e chiedere la grazia. Convinta dell'innocenza dell'ex fidanzato, abbandona lavoro e famiglia per scagionarlo dall'accusa di omicidio. Di qui la rievocazione dell’uccisione accidentale di un poliziotto, che fa da cartina di tornasole della profonda crisi morale e della conseguente presa di coscienza dei reduci, implicati in terribili eventi bellici, crisi che finirà per investire lo stesso marito della donna, costretto a un catarsi alla quale tentava di sfuggire. Poche azioni in un unico ambiente o quasi, il braccio della morte. 
Un dramma riproposto attraverso dialoghi talora prolissi e sempre molto datati. Quando apparve sugli schermi probabilmente il film provocò dolorose reazioni, rievocando un dramma di molti, oggi appare poco più che un reperto: altri drammi, altre crisi, altre violenze. E un modo corretto ma lineare nel rievocarle non basta più. 

HAPPY VALLEY



Una vallata che proprio happy non è, un anomalo sequestro di persona compiuto da alcuni bislacchi giovinastri, dediti anche al traffico di droga, con la connivenza di un impiegato presso il padre della rapita, una poliziotta costretta dalle circostanze ad affrontare crimini insoliti, una storia familiare impicciata, vecchi rancori e nuovi delitti. Il tutto sul palcoscenico di un piccolo paese, uno di quei grigi e spenti paesi d’Inghilterra dove non succede niente o succede di tutto. 
Una seriale in sei puntate – ma con altre due stagioni -  targato BBC, una ditta che, come diceva il vecchio ritornello di Boncompagni, “non è la RAI-TV”, e neanche Mediaset aggiungiamo noi. No, la BBC riesce a confezionare storie popolari con la giusta razione di sentimenti e di accadimenti drammatici scritti in modo felice e diretti in  modo sicuro. Personaggi ben descritti e interpretati da attori di prim’ordine, che non sembrano attori per quanto riescono ad essere veri, volti non pasticciati e omologati dal trucco di maniera e scenografie realistiche quanto inconsuete, non levigate dallo smalto fotografico. Del resto su queste tematiche sociali-drammatiche la tv batte il cinema due a zero, per efficacia e verità.  
Sarah Lancashire, volto noto della tv inglese, è la protagonista del serial, che – come scrive Mike Hale sul “The New York Times” – “oltre ad essere un thriller intelligente e coinvolgente, è un racconto sulla moralità, di quelli in cui il mistero è secondario (sappiamo chi ha fatto cosa per tutto il tempo)”.

EMELIE



Ci sono alcuni temi – meglio chiamarli congegni oppure molle – che garantiscono lo scatto ogni qualvolta vengano usati. La molla della casa chiusa notturna e inaccessibile, la molla del visitatore sconosciuto piovuto non si sa da dove, la molla dell’amico o congiunto buono che si rivela uno psicopatico con svariati delitti a carico, la molla del sequestro di persona con conseguente richiesta di riscatto e affannosa ricerca della vittima prima che sia troppo tardi, e così via. Tutte molle che vengono caricate a doppia carica quando ci sono di mezzo i bambini. Forte contenuto adrenalinico, suspense e tensione all’ennesima potenza, finale catartico con la vendetta e la vittoria del più debole. Sulla base di questi schemi garantiti si potrebbero costruire mille film, e non è detta che ne siano già stati costruiti altrettanti. 
“Emelie” si allinea in buon ordine alla lista: una babysitter simpatica e caruccia, tre bambini pestiferi, una coppia di giovani genitori che si concedono un’uscita serale per celebrare l’anniversario di nozze con cenetta a due. E poi? E poi la babysitter caruccia si rivela una inquietante psicopatica con dramma personale appresso, i bambini pestiferi vengono convenientemente bistrattati e terrorizzati, meno il più grandicello che scopre inaspettate doti di salvatore, in più c’è un misterioso signore che spia la coppietta genitoriale mentre sta allegramente brindando al ristorante. Non voglio e non debbo raccontare di più di questo thriller americano con una punta di horror. Ma a conti fatti il film funziona, la molla scatta a dovere, e la tensione saggiamente amministrata dal regista 
Michael Thelin ci fa dimenticare il deja vu: siamo pronti a caderci ancora una volta. E Sarah Bolger, l’attrice irlandese che vestiva i panni di Maria (non ancora sanguinaria) nella serie dei “Tudors”, se la cava alla grande.

MODERN FAMILY

Cammina cammina sono arrivato alla quarta delle sette stagioni di questa sit-com ancora in lavorazione, onusta di premi e di imitazioni, che racconta le vicende di una famiglia allargata, in costante cambiamento rispetto ai canoni tradizionali della famiglia occidentale.
 Tre famiglie, strettamente imparentate fra loro: l’anziano magnate che ha sposato in seconde nozze una giovane prosperosa colombiana con figlio a carico, un agente immobiliare - un ometto alla Homer - con moglie e tre figli, e poi una coppia omosessuale con piccola vietnamita adottata. L’elemento di novità rispetto alle tradizionali situation comedy familiari è dunque costituito dalla presenza della coppia di genitori omosessuali e dal matrimonio interrazziale, ma combinati, in ultima istanza, con le caratteristiche della struttura familiare patriarcale e nel rispetto dei convenzionali ruoli e stereotipi, senza ricorrere ad ostentati manifesti ideologici. 
Scene di vita non coscritte in un unico ambiente – come avviene di solito nelle sit-com - ma ambientate in tre villette dello stesso quartiere, e poi le gite, gli svaghi, le vacanze in comune, le ricorrenze obbligate del cerimoniale americano, le piccole avventure e le altrettanto piccole disavventure. Il tutto condito da interventi “in campo” dei protagonisti che si raccontano e soprattutto si commentano. Uno spaccato umoristico quanto verosimile di vita quotidiana dell’americano medio e una definizione grottesca dei diversi personaggi, ma in punta di penna o, se preferite, di macchina da presa. 
Per uno dei creatori, Christopher Lloyd, una delle caratteristiche della serie è appunto “l'assenza di cinismo: tutti i protagonisti, anche se possono litigare o prendersi in giro, alla fine si amano e si prendono cura l'uno dell'altro creando un'atmosfera genuinamente calda e accogliente.” Ancora una volta la televisione made in USA ha qualcosa – anzi molto – da insegnarci. 

Ho concluso anche la quinta stagione e sono oltre la metà della sesta, della singolare sit-com “Modern family”, con i personaggi che via via invecchiano e i bambini che diventano adulti. Il mix è riuscito a rimanere fondamentalmente costante, con una serie continua di gag assurde o più spesso verosimili, ritagliate addosso ai personaggi-base, quelli che gli americani chiamano “caracters”. In linea generale si può dire che i due gay con la loro piccola in adozione abbiano guadagnato spazio talvolta anche a scapito degli altri e che i figli sono cresciuti in statura ma perdendo la capacità di incidere. Ma gli autori ne inventano sempre delle nuove, talora ricorrendo a trasferte esotiche, talora approfittando delle ricorrenze annuali, a volte ancora imprimendo un ritmo pochadistico o da vecchia comica sennettiana all’azione o moltiplicando i camei riservati alle guest stars, gli ospiti eccellenti. 

LE IDI DI MARZO


E’ un film del 2011 diretto da George Clooney, basato sul lavoro teatrale di Beau Willimon. Già da svariati anni la televisione ha reso di pubblico dominio le pratiche politiche che contraddistinguono le cosiddette primarie americane, cioè le campagne per l’elezione del candidato che sfiderà il rivale dell’altro partito nella corsa alla Casa bianca. “Le idi di marzo”, data della congiura per sopprimere Cesare, appartiene – o meglio resuscita – quel filone di acerrime critiche alla natura ostile e predatoria della società capitalistica statunitense del XX secolo che fece la fortuna di una serie di film negli anni Sessanta,  il più delle volte ispirati dalle cronache della tv o tratti addirittura dagli originali tv di Rod Serling, Clifford Odets, Paddy Chayevsky, ecc. E c’è da dire che questi film si permettevano un livello e una violenza critica nei confronti del “potere” che in altri paesi fuori dall’America, compreso il nostro, sarebbero stato oltre che inconcepibili, oggetto di critiche e censure feroci. “Le idi di marzo” è uno di questi. 
Nonostante non sia il primo esemplare di quel filone “presidenziale” di cui abbiamo visto molti esempi e che anzi costituisce un omaggio ai classici del cinema politico anni 70, la critica è, oltre che esemplare, particolarmente spietata. I gruppi di potere, le strategie, i compromessi, le cricche manageriali che stanno alla base delle campane presidenziali, un gioco di ricatti e di scandali, la ricerca spasmodica dei  “peccati originali” di cui i singoli candidati possono essersi macchiati, le connivenze fra stampa, pubblica opinione e manager politici, un campionario delle umane virtù allo stato puro. Insomma vince chi diventa più coriaceo e abbraccia il gioco dei ricatti. 
George Clooney, di attestata fede democratica, dirige con abilità e scioltezza il tutto, con una perfetta gestione degli attori, fra cui spiccano il giovane Ryan Gosling e il compianto Philip Seymour Hoffman. Un film molto interessante, inconcepibile sui nostri impegnati quanto indottrinati schermi.

CRIMINALI DA STRAPAZZO


Chi l’ha detto che uno spettatore non possa fare recuperi? Un tempo non si poteva: prime visioni, seconde, terze e poi l’oblio. Ma oggi no. Fine della premessa. 
Ho rinvenuto “Criminali da strapazzo”, un Woody Allen targato 2000. Una commedia con i dovuti sconfinamenti nella comicità, uno di quei recuperi dei film di “genere” ma fatti alla Woody, facendo il verso e insieme rovesciando logiche e stilemi. La sterminata filmografia di Woody Allen, fatale come le tasse e il cambio di stagioni, ci ha abituati a questi cambi di registro alternando film comici, commedie e film sentimentali, sconfinamenti nell’assurdo e recupero dei “generi” appunto, il tutto reso incandescente - quando funziona - dalla presenza di quel personaggio stranulato, complessato, sessuomane, psicopatico, logorroico che è lui stesso. 
Negli ultimi tempi l’obbligo di non mancare all’appuntamento annuale ha portato talvolta Woody Allen a “sbrodolare” storie un po’ abborracciate, che non funzionano, l’ultimo esempio è del 2012, il cosiddetto omaggio alla nostra Roma. 
Ma qui, in questo “Criminali da strapazzo”, Allen è ancora nel pieno delle forze, battute e situazioni sono brillanti, e così gli attori, con l’eccezione dell’illustre “guest star” Hugh Grant, che appare spento e a disagio, quasi avesse fatto il film per forza, Questi microcrimimali fanno fortuna grazie alle virtù culinarie di una moglie pasticcera, che però cade preda della sindrome dell’arricchita e, nella speranza di raffinarsi per avere accesso al bel mondo, finirà preda degli sciacalli e verrà derubata, mentre suo marito, ladro maldestro e pasticcione, si confonde sulla refurtiva e scambia una collana falsa per quella vera. Così si va verso un finale che è un lieto fine come tutti i finali in cui si parla di azzerare tutto e ricominciare.

THE DO-OVER



Chi ha inventato la commedia cinematografica? Ma chi ha inventato la commedia tout-court come genere drammaturgico? Senza bisogno di risalire ad Aristotele, Euripide, Plauto & C. fermiamoci alla prima delle due domande. E specifichiamo ancora. La sophisticated comedy, di Lubitch e compagni, che dall’Austria emigra in America, fatta di schermaglie amorose shakerate con qui-pro-quo ed equivoci sentimentali; la commedia di schietta marca USA, basata su gag tipicamente visive, la commedia canoro-adolescenziale alla Deanna Durbin, la commedia comico-sentimentale alla Doris Day, la commedia demenziale alla Jim Belushi o quella erotico-adolescenziale che oggi va per la maggiore. Fra tante varianti si ha l’impressione che da diversi anni a questa parte la “commedia” sia diventata un gioco piuttosto pesante, “spinto” direbbe un vecchio moralista, dove l’erotismo da allusione pruriginosa è diventato smaccata esibizione. 
Quindici righe d’introduzione – forse un po’ troppe – per parlar di “The Do-Over”, commedia targata 2016, che diverte e che, senza essere al top - né “A qualcuno piace caldo” e neppure “Accadde una notte” - ha il raro pregio di puntare su un soggetto più elaborato e articolato di quelli di routine: due amici molto dissimili decidono di far tabula rasa del passato, vestono una nuova identità e vengono travolti dalle avventure per cambiar vita, e di qui, soldi facili, morti inspiegabili, una formula taumaturgica contesa, donne e donnine all’assalto, rovesciamento di alleanze e dei ruoli buono-cattivo, finanche un briciolo – ma solo una dose omeopatica - di patetico. Adam Sandler, protagonista e produttore del film, e David Spade sono i due eroi della storia, contornati da bellezze mozzafiato. 
Volgarità di dubbio gusto – e ce ne sono a iosa – stemperate dal grottesco che ce le fa allegramente digerire. Insomma un film - chiamatelo filmetto se vi fa piacere - divertente, quanto basta. E con l’aria che tira al cinema non è cosa da poco.

DOCTOR FOSTER


 Guarda su Netflix

Scritta da Mike Bartlett e suddivisa in cinque puntate la serie è stata distribuita in Inghilterra nel 2015 e giunge ora anche in Italia grazie a Netflix. La BBC ci insegna come una trama apparentemente da classica “fiction”, basata su un triangolo di infedeltà coniugali, insomma su una di quelle vicende che, una volta riassunte in poche righe, si potrebbero considerare scontate, possa invece, grazie a un’accurata sceneggiatura, una rigorosa regia e un scelta esemplare degli interpreti, trasformarsi in un piccolo gioiello. Alla BBC il gioco riesce, se non sempre, molto spesso e questa “Doctor Foster”, incentrata su un personaggio femminile interpretato dalla incisiva Suranna Jones, ne è l’ennesima dimostrazione. 
Gemma è una donna dalla vita apparentemente perfetta: un ottima professionista, un matrimonio felice. Presto però il sospetto che il marito frequenti un’altra donna rovina l’armonia. Quella che doveva essere una relazione extra-coniugale, si rivela un terribile scoglio, tale da  sconvolgere la vita. La serie sviluppa il gioco fra sentimenti ed evasioni erotiche in un giro di amici che si rivelano meno “amici” del previsto e fra cui prendono vita rancori, tradimenti, disillusioni. Ma è soprattutto sul ritratto di Gemma, che tenta disperatamente  di salvare un matrimonio in frantumi per poi rivelarsi una inflessibile giustiziera, che la serie può puntare, non negandosi a una serie di colpi di scena e ad incisivi “dialoghi drammatici” sostenuti da attori di grande professionalità. 
Una considerazione accessoria: perché l’italica fiction “sentimentale” sembra sempre rinunciare in partenza a inseguire un livello minimo di qualità nei dialoghi e soprattutto nella cura degli interpreti? La BBC è la BBC anche quando affronta temi e contesti per un pubblico prevalentemente femminile e un po’ da melodramma borghese, senza praticare sconti.

SUPER 8



Alcuni ragazzini, orfani di madre o membri di famiglie disastrate, si riuniscono per girare un filmetto super otto nei pressi di una stazione onde sfruttare il “fotogenico” passaggio dei treni. E assistono allo scontro fra un convoglio ed un’auto che si trasforma in una catastrofe biblica. C’è sotto un mistero, perché interviene l’esercito che fa fuori un sopravvissuto al disastro, fa sparire il contenuto dei vagoni, isola la cittadina per bloccare ogni fuga di notizie ed eliminare “coloro che potrebbero aver visto”. Aver visto che cosa? E si sviluppa una vicenda che assomiglia – e un po’ fa il verso – a tante storie di Spielberg, con alieni in forma di mostri (cattivi?), ragazzini più forti e intelligenti degli adulti, misteriose battaglie urbane e fughe in bicicletta.
Questo film del 2011 unisce il talento produttivo di Spielberg e l’esperienza fanta-realistica di J.J.Abrams, il creatore di “Lost” e altre serie tv, nonché il regista degli ultimi “Star Trek” e “Guerre stellari”. E catapulta lo spettatore in due ore di azione, paura e suspense, sia pure contenute in un ambito un po’ prevedibile. Spielberg – sul suo versante non impegnato, quello per intenderci, dei dinosauri redivivi – sa come ammannire una storia e non deludere lo spettatore, anche in un’operetta a quattro mani come questa che si conclude – e non potrebbe essere altrimenti – con il rituale abbandono del pianeta da parte dell’alieno (buono?) e la vittoria finale dei piccoli. La cosa più singolare e divertente del film sono i titoli di coda, nel corso dei quali viene simulato il filmetto super-otto, in cui i bambini raccontano a modo loro, seguendo gli stilemi del film dell’orrore, una storia di mostri, zombie, e sciagure assai simile all’originale, quasi una metafora.