I DON'T FEEL AT HOME IN THIS WORLD ANYMORE


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Anche senza leggere le sigle – a proposito vi siete accorti che ora ogni film è preceduto da almeno tre sigle ? – ci si accorge subito che certi film hanno un’aura di freschezza e di improvvisazione, magari un po’ approssimata, che le grosse produzioni di serie A non hanno. Ai film cosiddetti indipendenti è consentito non dico sperimentare ma almeno saggiare volti nuovi, trovare ambiti diversi, raccontare in maniera più distesa, ricca di svolte non necessarie, prendersi pause e respiri. 
E il caso di questo film fresco di giornata (2017), dal titolo chilometrico che narra di Ruth, assistente infermiera un po’ depressa, ragazza solitaria, trasandata solitaria e zitella in ispirito che vive sola nutrendosi di romanzi fantasy e birra, che reagisce a un furto casalingo trovando un’impensabile solidarietà nel giovane vicino di casa, proprio l’individuo che le infesta i pochi metri di giardino con le cacche del suo cane. 
Opera prima dell’attore Macon Blair - che lo ha anche scritto - il film alterna toni da black comedy ad altri un po’ paradossali , un po’ thriller e un po’ commedia. Attori giovani e competenti e comprimari bravi e anche simpatici,. Il budget basso evidentemente aiuta a far camminare la fantasia, e non solo negli USA. 
Ma ci vogliono anche idee e “saperci fare”. Come in questo caso.

BANGKOK DANGEROUS - IL CODICE DELL'ASSASSINO

 

Con una lunga carriera e una serie di buone occasioni, Nicholas Cage, dell’illustre schiatta dei Coppola, non ci ha mai entusiasmato troppo come attore. Il suo volto scavato e drammatico per antonomasia, caratterizzato da due occhi costantemente sbarrati, è stato utilizzato nelle due versioni ammissibili: agnello sacrificale alla mercè dei cattivi, e supercattivo nemico dei buoni.
In quest’ultima versione lo ritroviamo, assassino su commissione, adottare il rigido manuale del perfetto killer. Collaudata macchina per uccidere sino a quando non compie due errori dettati da un paio di inammissibili rigurgiti di umanità: un delicato sentimento nei confronti di una giovane thailandese sordomuta e un atteggiamento paternalistico verso il giovane che lo aiuta a compiere i misfatti. Male, malissimo, perchè queste due infrazioni al codice lo condurranno alla rovina. 
Curiosamente il volto impassibile e scarsamente espressivo di Nicholas stavolta funziona, proprio perché a disposizione di un personaggio impassibile per definizione, e il film funziona altrettanto bene, con una storia risaputa ma scandita in modo sufficientemente originale. Bangkok, i suoi angoli celebrati dal turismo, il suo caos orientale, i volti della sua gente costituiscono un contesto nuovo per una storia che forse nuova non è.
Insomma un film d’azione scritto a metà fra il film all’americana e quello alla Hong Kong, a cui non c’è granchè da rimproverare.

HUMANDROID



Lunga la storia della lenta conquista di un’intelligenza autonoma, unita a una coscienza morale, da parte di individui meccanici creati dall’uomo - calcolatori, robot, androidi, automi ecc. - in parole povere: intelligenze artificiali contro intelligenze umane, macchina contro uomo. Più che di una lotta si tratta di un lento avvicinamento fra creatori e creature, i primi sempre più stolidi, i secondi sempre più avvertiti e irrequieti. Possiamo far partire la vicenda cinematografica di questo dissidio perlomeno da Stanley Kubrich e con la sua “2001. Odissea nello spazio”. Ma poi ci sono i “Robocop” – dove peraltro il rapporto uomo-automa è rovesciato -, e poi quel trepido film che è “AI. Intelligenza artificiale” di Spielberg, e chi più ne ha più ne metta. Perché non arretrare addirittura sino alla preistoria, con Meliès o con il Fritz Lang di “Metropolis”? 
“Humandroid” (2015) ci proietta nel solito mondo futuribile – stavolta situato a Johannesburg - dove un coraggioso quanto improvvido giovane inventore mette a punto la scheda per dare sentimenti e autocoscienza a un robot, residuato di un esercito di robot poliziotti creati per combattere l'alto tasso di criminalità della città. Il tutto in un mondo postapocalittico dove convivono brillanti tecnocrati e uomini retrocessi allo stadio di trogloditi. La storia un po’ pasticciata, come del resto si conviene a questo tipo di problematiche, procede talvolta speditamente talvolta a singhiozzo e Chappie, il robot fornito di apposita scheda che gli permette di possedere un'intelligenza artificiale senziente, compie in fretta la sua educazione sentimentale dando agli umani varie lezioni di umanità. 
Un po’ troppo fragoroso e con un eccesso di battaglie furibonde a base di sparatorie, il film conta non tanto sulla presenza centellinata e superflua di divi come Hugh Jackman o Sigourney Weaver, quanto su quella del robot Chappie – o di chi lo interpreta coadiuvato dal computer – nonché dei due rapper stralunati Yolandi e Ninja.

IL CASO O.J. SIMPSON: AMERICAN CRIME STORY



A me, amante delle grandi storie che sfidano il passato, sia remoto che prossimo, fa un po’ rabbia constatare come la fiction televisiva, da qualche anno a questa parte, da noi come nel resto del mondo, prediliga il presente, le storie della cronaca, sia pure rabberciate ed edulcorate per farle diventare favola. Ma tant’è, ormai i telespettatori sembrano gradirle. Da noi in Italia questa come altre tendenze diventano stucchevoli e la cronaca viene filtrata attraverso gli occhiali rosa della stampa gossip o attraverso quelli verdi o abbrunati di un sociologismo a buon mercato. Non faccio citazioni, sarebbe troppo facile. 
Ecco perché sono rimasto colpito favorevolmente, nonostante sia prevenuto, da questa serie dedicata al “caso O.J,Simpson”, prevista in dieci puntate, prima di un ciclo dedicato all’ “American Crime Story”. Intanto sceneggiatura magistrale, la cronaca – che peraltro conoscevo solo a grandi linee, molto genericamente – viene non scimmiottata in un tentativo di sommaria trascrizione ma trasferita in un articolato “romanzo”. In particolare nella storia di un complesso gioco giudiziario, una rappresentazione piuttosto brutale di come si amministra la giustizia negli USA. Cui fa seguito un’accurata realizzazione, veloce e moderna ma senza eccedere in effetti e “bellurie” non giustificate. 
E che dire degli attori? Da Cuba Cooding jr., protagonista non onnipresente ma efficace e indispensabile, a John Travolta che cesella il personaggio dell’avvocato, abile quanto cialtrone, a tutti gli altri. Insomma una impagabile lezione di tv.

IL GRANDE MATCH



Sia Sylvester Stallone che Robert De Niro oltre alle origini italiane hanno in comune un illustre passato pugilistico, come attori s’intende. Stallone con il fortunatissimo ciclo dei “Rocky”, De Niro con quel “Toro Scatenato” che gli procurò l’Oscar. E della saga dei “Rocky” questo “Il grande match” (2013) rappresenta una sorta di postilla: l’ammaccatissimo Stallone disputa un ultimo disperato incontro con l’anziano De Niro, ancora indomabile. 
Henry "Razor" Sharp e Billy "The Kid" McDonnen sono due pugili rivali di Pittsburgh, ormai in pensione. Entrambi, imbattuti e all'apice delle loro carriere, si sono affrontati due volte, vincendo un incontro a testa. E questa è l’ultima sfida fra due rivali, in pugilato come in amore: perché fra i due c’è la presenza di Kim Basinger che ama il primo ma che al secondo ha regalato un figlio. Insomma un bel groviglio sentimental-sportivo con i due colossi malconci ma non domi, litigiosi ma in fondo legati a doppio filo nello sport come nella vita. 
Scritto con garbo e con altrettanto garbo diretto da Peter Segal il film, zeppo di citazioni (dall’allenamento di Rocky alle smorfie di Jack La Motta) e con Alan Arkin che cesella da par suo il ruolo del vecchio allenatore, è anche una prova di forza per i due stagionati attori: Sylvester Stallone ripete il suo personaggio, scritto in modo saggiamente commisurato alle sue capacità e ai suoi limiti, e Robert De Niro, come sempre meraviglioso gigione, che costruisce il suo con il solito risvolto autoironico, sequenza dopo sequenza. Un film per una vasta audience ma che fa l’occhietto al “come eravamo”.

CORPO D'ELITE



La squadra speciale, vestita con le regolamentari tute nere, fa irruzione per neutralizzare una bomba atomica e... viene falciata dai terroristi: tutti morti! Sono i primi tre minuti di film: ma si tratta di una falsa pista per lo spettatore. La squadra speciale – quella che deve prendere il posto della precedente, destinata al recupero della bomba rapita - verrà formata, a cura del fascistoide Ministro degli Interni, riunendo assieme gli elementi più disparati, nonché rappresentativi delle varie realtà regionali spagnole. Chi sono questi aspiranti eroi da strapazzo? Fra loro alcuni spiantati nonchè un inflessibile ausiliario del traffico addetto alle multe. Insieme si formeranno (?), litigheranno, disputeranno e alla fine, dopo una serie di peripezie che non stiamo neanche a raccontare, tutto finisce in gloria. 
Sembra facile fare un film comico. Facile trovare lo spunto: la parodia dei film sulle squadre speciali e le loro epiche imprese e, per cominciare, la formazione della strampalata squadra composta da “idioti”, almeno all’apparenza. Ma trovare uno spunto non basta, lo spunto va sviluppato e soprattutto – trattandosi di un film comico – imbottito di gag. Diciamo subito che questo film ci riesce mettendo insieme un’operetta demenziale, sinceramente divertente. 
Non osiamo pensare a cosa avverrebbe se il soggetto venisse adattato dai cineasti nostrani, come adesso sembra essere di moda: un accozzaglia di regionalismi “grevi” con i soliti prevedibili attori e relativa sguaiataggini. Gli spagnoli navigano sicuri evitando i pericoli e “la comica” procede spedita con fantasmagorica esplosione finale di fuochi d’artificio.

SHOOTER



Una specialità della CIA deviata, almeno di quella immortalata dal cinema: prendere un soldato superesperto, incaricarlo di una missione di salvataggio spericolata, addossargli un delitto non suo ed eliminarlo per codificare l’attribuzione. Un procedimento che, almeno secondo alcuni, fu seguito anche per l’assassinio di Jack Kennedy cui fece seguito la velocissima eliminazione del - presunto ? – assassino Osvald.
La serie “Shooter” parte così. E il povero Bob Lee Swagger, ex-cecchino della marina statunitense, si trova addosso una terribile imputazione avendo avuto il torto di essere rimasto in vita nonostante un piano preciso per eliminarlo e attribuirgli una colpa non sua. Riuscirà a sventare la terribile accusa e a smascherare coloro che hanno ordito il piano diabolico? E’ quello che ci accingiamo di vedere nelle successive puntate della serie, che è partita bene, con un “buono” con famiglia, solido e onesto, e un bieco drappello di “cattivi” che si celano dietro le più alte cariche dello Stato.
 Alle spalle della serie c’è il romanzo di Stephen Hunter, “Una pallottola per il presidente”, ma anche un film omonimo del 2007 con Mark Wahlberg, che ora figura fra i produttori della serie. 
Terza e quarta puntata: ho l’impressione che la vicenda venga un po’ stiracchiata per farla durare, ricorrendo all’evocazione di un precedente complotto che si svolge in Afghanistan coinvolgente gli stessi personaggi con un gioco per qualche verso analogo: qui che lunghi flashback una storia in parallelo, anche se in tempi diversi. Quinta puntata: la vicenda riparte più speditamente e con più sicurezza.

BITTERSWEET LIFE

 

Evocare Shakespeare o la tragedia greca per questo dramma cinematografico made in Corea del Sud, certo quanto di più lontano ci sia da un semplice film d’azione anche se il potenziale bellico che vi viene impiegato è rilevante. Sarebbe piaciuta a Sergio Leone l’avventura solitaria di questo vendicatore, ma qui narrata senza il menomo ricorso all’humour che caratterizzava l’inventore del “western italiano”.
Ma andiamo per ordine, Sun-woo, manager di un lussuoso albergo, è il braccio destro del boss malavitoso Kang, un giovane scherano fedelissimo agli ordini di un bieco e brutale magnate che si fida così tanto di lui da imporgli un incarico di fiducia: sorvegliare la sua giovanissima amante, sospettata di tradirlo, durante i tre giorni della sua assenza. Tizio prende contatto con la fanciulla, che è una suonatrice di violoncello, esegue il suo compito di sorveglianza, ne scopre un amoretto, informa il principale e viene dal lui incaricato di fare giustizia. Ma non la fa, trasgredendo così all'ordine del suo boss e per questa disobbedienza dovrà pagare con la vita. Per la sua imperdonabile disobbedienza i “bravi” del capo lo riducono in fin di vita e lo seppelliscono vivo. Dalla bara di fango Tizio risusciterà trasformandosi in un angelo vendicatore. 
Di qui la carneficina, impartita con tecniche aggiornatissime, a base di pistole e mitragliatori, ma con spirito antico, come un assurdo rito purificatorio. La violenta carneficina a base di mitra, distruzioni e morti a catena assume i contorni del rito alla samurai e mi ricorda la sacralità della terribile vendetta impartita dal patriarca nella “Fontana della vergine” di Ingmar Bergman. Questa aura antica, questo eccidio è appunto da tragedia greca. 
Un film singolare, diretto dal sudcoreano Kim Jee-woon e arricchito dalla prestazione del giovane Lee Bieyong-Heon, girato con un cura quasi eccessiva, scandito fra moderne architetture ortogonali, ma legato e un costume barbaro che è di difficile comprensione, un po’ cedevole di fronte a qualche belluria non strettamente necessaria o forse un po’ estranea al modo di sentire del pubblico nostrano, come il finale un po’ a matrioska, “A Bittersweet Life” è un inno alla magnificenza estetica del cinema di Kim Jee-woon.