BLUE JASMINE



Autore singolare, Woody Allen, anche dopo essersi lasciato alle spalle i Settanta ed ora gli Ottanta continua a girare in media un film all’anno ma ne azzecca uno ogni tre. Non gli si può negare un raro talento nell’abbozzare storie “aperte” e nello scrivere brillanti dialoghi. “Blue Jasmine” (2013) appartiene alla categorie dei film azzeccati. 
La storia alterna i due tempi della vita della protagonista, quello in cui è la ricca consorte di un finanziere imbroglione e quello in cui in totale povertà deve farsi ospitare dalla sorella adottiva. Due tempi che sono anche due mondi: quello dell’alta borghesia spendereccia e quello proletario. Nel tentativo di salvarsi dalla depressione post-sinistro (fallimento e suicidio del consorte) nonchè di riconquistare il livello sociale in cui è precedentemente vissuta, la protagonista cerca di trovare una soluzione per sfuggire alla propria angoscia, o meglio alla sua psicosi. Tentativo destinato al fallimento. 
Il film racconta questa doppia storia con l’estro dell’Allen dei giorni buoni, puntando soprattutto sulla validità degli interpreti, fra cui prende il volo Cate Blanchett col suo straordinario vibratile disperato personaggio giustamente premiato con l’Oscar. Non dimenticheremo questa donna fragile e dignitosa, nevrotica ma aperta alla speranza. Un ritratto così vero e impietoso da urtare la nostra placida sensibilità di spettatori.

PREGA FINCHE' PIOVA



In regime di siccità consoliamoci con questo film che parla di siccità ma non solo, perché la siccità che rende interi lembi della California piatte distese di grigio è dovuta a qualcuno che impedisce, con false motivazioni ecologiste, l’arrivo di canalizzazioni che in parte almeno risolverebbero il problema. Chi scopre tutto è una giovane giornalista che, dopo una lunga assenza, si riconcilia con la sua terra a cui ha fatto momentaneo ritorno per la morte violenta del proprio genitore. 
Tutto abbastanza prevedibile, compreso il parziale lieto fine e la riappropriazione delle terre riarse restituite alla naturale missione agricola. La visione di queste brulle sconfinate pianure, aride quasi spente, è il lato più suggestivo del film del quale è difficile dir male come pure farne gli elogi. Annabelle Stephenson, la protagonista, sgrana i suoi occhioni un po’ ipertiroidei alla ricerca di una carica drammatica raggiunta a suon di lacrime.

THE SAINT


Cadono i miti come cadono le foglie in questo incipiente autunno. Crollato in buona parte il mito dell’irresistibile spione 007, un po’ svenduti quelli di Batman e Spiderman è la volta del Santo, il ladro gentiluomo un po’ scopiazzato da Arsenio Lupin con in più un fondo umanitario e caritatevole alla Robin Hood. E’ il personaggio creato da Leslie Charteris nel 1928, che fece la fortuna di Roger Moore e forse fu per lui il trampolino di lancio verso il più valido e sicuramente il più simpatico dei James Bond. 
C’era già stato nel 1997 un film poco riuscito con Val Kilmer, altrettanto poco riuscito il nuovo remake, pilota di una progettata serie tv, anche se tenta di riannodarsi alle origini del personaggio mostrandone, attraverso contenuti flashback, la nascita e “formazione” (chiamiamola così). 
Due gravi difetti fra i tanti: primo, l’inane tentativo di riassumere la vicenda di Simon Templar, diluita all’origine in molti romanzi e altrettanti telefilm, in un unico film, quasi uno spasmodico e inutile riassunto. Secondo: a parte un rapido cenno alle finalità altruistiche delle sue imprese, il tutto viene ricondotto alle dimensioni di un normale e scontato film d’azione, abbastanza confuso e ripetitivo. Quanto al carisma del protagonista e degli altri personaggi, lasciamo perdere. 
Unico effimero d’interesse il rapidissimo cammeo del vecchio Roger Moore, ormai appannato ma non privo di quella sua sottile carica auto-ironica.

OZARK



Le serie tv – sia straniere che nostrane - amano le location un po’ particolari, un’isola, una comunità di provincia, una terra isolata, i margini di una scogliera, i ponti e così via. Non è tanto – o non solo – per comodità ma anche per disporre di una situazione logistica d’effetto, meno generica di vie di città ormai tutte analoghe perchè omologate.
Da Chicago, Marty e famiglia si spostano sulle rive di un lago che dà il titolo alla serie, Ozark, in un villaggio vacanze in Missouri. Là Marty ha un compito particolare: riuscire a “ripulire” una grossa somma di denari di cui è debitore a un grosso boss – tanto per cambiare – del cartelli della droga messicani. E Marty ci riuscirà – o forse no - al termine di dieci puntate della prima serie, mettendo in campo tutti gli espedienti di un provetto finanziere e collocatore di denari. Il paese – che tanto pacifico non è – ne riuscirà sconvolto. 
La serie – stando a questa prima stagione – non è affatto male, forse qualche volta un po’ difficile da capire nei suoi risvolti finanziari, ma sufficientemente ricca di personaggi e situazioni. Da notare la presenza di una Laura Linney un po’ ammaccata. E’ in arrivo la seconda Stagione in 10 episodi.

VITE SOSPESE



Ai miei tempi i film erano delle meteore, occorreva coglierli al loro passaggio, nel giro di pochi mesi, e poi sparivano nei meandri della memoria per chi aveva avuto la fortuna di acchiapparli in un locale di prima seconda o terza visione, quelli che a Roma si chiamano i “pidocchietti”. Oggi no, le televisioni e i DVD ci permettono di compiere ricognizioni dirette e a distanza di anni. 
Venticinque dalla comparsa di un film come “Vite sospese”, un singolare film che potremmo definire di spionaggio, attorno a una pagina di storia. Il nazismo e gli ebrei. Curioso film? Direi un filmone, con ricostruzioni attente quanto grandiose, in anni in cui le scenografie e il numero delle comparse non potevano essere adulterati dal computer. Con un gruppo di attori di prim’ordine, da Melanie Griffith, un’attrice troppo presto scomparsa dalla vita artistica attiva, a Michael Douglas, e c’è persino John Gielgud, il mito shakespeariono, in una parte minore. E pensare che nel 1992 “Vite sospese” si accaparrò tutti i “Razzie Awards” come peggior film dell’anno. 
Si fanno più film di questo tipo? Sceneggiature ben calibrate, storie avvincenti, contesto storico attentamente ricostruito, attenta regia e anche un pizzico di umorismo con cui il personaggio principale modula il suo personaggio. Forse sì. Ma guarda un po’, in questo momento non me ne viene in mente nemmeno uno!

REGINA DEL SUD



Intorno agli anni Quaranta-Cinquanta gli americani stabilirono le regole di un nuovo genere cinematografico, il film di gangster o poliziesco, che cantava le gesta di gang spuntate come funghi attorno all’equivoco traffico di alcool negli anni ruggenti del proibizionismo: personaggi un po’ double-face, disegnati nelle loro dimensioni eroiche, anche se si trattava di esseri spregevoli destinati a una brutta fine in obbedienza al Codice Hays, e poi le facce patibolari dei gregari, la “pupa” del gangster, e quel clima torbido di una nemesi incombente che tingeva di tristezza ogni avventura. Somigliava parzialmente al noir francese ma ne differiva sotto diversi aspetti.
Da una decina di anni o forse meno il genere si è aggiornato anzi possiamo dire che ne sia sorto uno nuovo. Loschi trafficanti sudamericani, cartelli in luogo di gang, e il traffico della droga in luogo di quello dell’alcool, droghe più o meno diluite e adulterate, come negli anni passati si usava fare col whisky, e poi accoliti dalle facce patibolari scelti prevalentemente fra ispanici, e pupe assortite per il capo. Ma pupe generiche con meno personalità, spesso prostitute schiavizzate, senza i vecchi rituali del dono di gioielli e pelliccette. Il genere – pronube Netflix – batte in violenza il precedente, dove la crudeltà era, tutto sommato, descritta in toni un po’ asettici, solo sventagliate di mitra e colpi di pistola. Qui la violenza deborda, si trasforma in sadismo e i morti si sprecano. 
Su questo schema, mescolato in un pastiche fra finzione e verità, sono state costruite le serie “Narcos” sulla vita e le avventure di Pablo Escobar, ed ora è la volta – con una maggior commistione fra realismo e finzione - de “La regina del Sud”, di cui abbiamo visto i tredici affascinanti episodi della prima stagione, tratto dal quattordicesimo romanzo dello spagnolo Arturo Pérez-Reverte. Teresa Mendoza, destinata a divenire la Regina del titolo, la conosciamo ancora alle prime armi della sua carriera di donna rotta a tutto, d’astuzia volpina, di eccezionale forza d’animo, dolce e spietata, decisa a salire la vetta in un traffico internazionale di droga seminato di morti e assassini. Il racconto è severo, crudo ma non compiaciuto. 
Gli interpreti tutti attendibili, i toni quelli di un racconto realistico che rivela aspetti sconosciuti di un terribile commercio. E al centro lei, Alice Braga, che gestisce il suo personaggio con bravura e intensa verità. Accanto al lei un altro personaggio femminile potente, Camila (Veronica Falcon) in lotta contro il marito per il controllo del cartello. E i comprimari, i secondi personaggi e le seconde storie: un racconto disteso e implacabile per chi ami i sapori forti, ma ben amministrati, senza i sapori fasulli e sofisticati della nostrana nouvelle cousine.