THE WHISTLEBLOWER



Quando vedo la scritta “tratto da una storia vera” precedere un film rimango sempre un po’ perplesso: cosa significa? Che il film intende essere “verosimile” rinunciando a trasferire nelle tassative regole del racconto un momento della realtà? Oppure che la vicenda trae spunto da un fatto realmente accaduto? O che il film vuol rispecchiare nei modi, nei luoghi e nei personaggi una vicenda reale, diventando quasi il suo “doppio cinematografico”? Discorsi complessi che ci porterebbero molto lontano. 
“Whistleblower” – cioè il “soffiatore di fischietto”, colui che denuncia pubblicamente trame che debbono rimanere coperte - segue l’ultima delle tre ipotesi di lavoro: è per metà la storia di una serie di violenze perpetrate ai danni di giovanissime ragazze bosniache, una vera e proprio tratta delle schiave, descritta a iosa con un’insistita serie di brutalità e sevizie iterate più del necessario, e per metà l’avventura della poliziotta americana giunta in Serbia ed Erzegovina con un incarico che dovrebbe servirle a risolvere alcune esigenze finanziarie ma che, impegnata a ricostruire certi fatti, scopre come nel traffico di esseri umani e nello sfruttamento della prostituzione, anche minorile, siano pesantemente coinvolti come aguzzini gli stessi membri delle forze di pace dell'ONU, portando in luce pericolose connivenze che avrebbero dovuto restare accuratamente coperte. 
Diretto da Larysa Kondracki, questo film del 2010 tenta di farsi “specchio” di una “storia vera” – la vicenda di Kathryn Bolkovac - utilizzando i luoghi dove si è svolto il fatto e più ancora attraverso l’uso di una fotografia contrastata, brutale, che vorrebbe simulare una “presa diretta” ma che fa l’occhiolino allo spettatore avvertito. Intento nobile nonché un po’ indigesto – in Italia il film non è stato distribuito sul grande schermo -, ma l’eccesso programmatico di insistita violenza nuoce in realtà proprio al realismo del film e alla sua compattezza. 
Interpretazione incisiva da parte della brava Rachel Weisz, pleonastiche le presenze di Vanessa Redgrave e di Monica Bellucci

TESS



Ultimo dei grandi romanzi inglesi dell’ottocento “Tess dei D’Ubervilles“ di Thomas Hardy racconta una storia non troppo dissimile da quella dei grandi romanzi coevi. La povera Tess raggiunge la casa signorile di quelli che si illude possano essere suoi lontani parenti, sedotta, vittima di violenza mette al mondo un bimbo che muore prematuramente, poi una vita sofferta nella povertà con quella dignità di fanciulla solitaria che le vicissitudini della vita non riescono a incrinare. L’amore, gli sponsali, la rivelazione del suo passato all’uomo che ama. L’abbandono da parte del consorte, la ricaduta nella più dolorosa povertà, poi la resa al seduttore che tardivamente la riaccoglie, e ancora: il ritorno dell’amato, il delitto, l’espiazione. Il caso e la società sembra cospirare contro la ragazza, che si trova a dover lottare per vivere. Quante vicende, tante da riempirne un lungo libro o un ancor più lungo sceneggiato. 
Roman Polanski non rappresenta i fatti, non li ricostruisce ma si limita a narrarli, uno dopo l’altro come in un severo resoconto contabile, ritagliando le vicende della sua eroina sullo sfondo costante del paesaggio inglese, accostando situazione dopo situazione, pagina dopo pagina, ma saltando o meglio ignorandone i raccordi e i passaggi, e inoltre saltando la rappresentazione diretta di delitti e conflitti drammatici, cioè di tutti quei momenti che uno sceneggiatore solerte e di routine sarebbe andato a ricercare ed evidenziare. Insomma il cammino contrario a quello che avrebbe seguito – o che spesso ha seguito – il trascrittore cinematografico di un corposo romanzo. Vicende e sentimenti vengono trascritte in modo quasi asettico e le pagine si sommano alle pagine senza soluzione di continuità. Un modo peculiare di respingere le tentazioni del dramma e della psicologia, a favore della pittura delle situazioni. 
Il film è assolutamente singolare, da vedere e rivedere, e nella ricca e composita filmografia dell’autore rappresenta un fatto a sé: un racconto volutamente privo di passionalità che, forse proprio per questo, scatena una sua intensa suggestione. Un ricco paesaggio umano e geografico, descritto con cura maniacale, quasi definito dalle figure e figurine che lo costellano, ma senza che queste si trasformino in personaggi autonomi. Una giovanissima Natashia Kinsky incarna il personaggio drammatico della protagonista, ma il regista si limita a registrare il muto alterno trascorrere delle nubi sul suo casto volto. 
Il film, scandito dal trascorrere delle stagioni e dalla descrizione attenta del duro lavoro dei campi – questo sì meticolosamente descritto - inizia con un lieto tramonto – quella danza di fanciulle biancovestite – e culmina con un’alba: l’assassina per amore che si allontana fra due militari a cavallo, con il marito a fianco verso il suo destino di morte.