STAR TREK - THE ANIMATED SERIES



Prima dell’allunaggio e delle esplorazioni spaziali, Gene Roddenberry, creatore di Star Trek, è stato l’autentico precursore della fantasia interplanetaria e intergalattica, riuscendo a spingere la sua Enterprise con relativa squadra oltre i confini dello spazio “per arrivare là dove nessun uomo è mai giunto prima”. Le sue storie, declinate in una serie interminabili di episodi e di stagioni, ci hanno introdotto alla geografia spaziale più sfrenata, facendoci accettare come amici, ma anche come nemici, esseri diversi, a volte repellenti. 
Resta insuperabile il primo ciclo (1966-69), consegnato alla mitologia televisiva, con l’eterogenea cosmopolitica squadra ai comandi del capitano Kirk, che contemplava una donna di colore, un russo, un asiatico e infine un vulcaniano un po’ meticcio (madre terrestre) dalle orecchie a punta e dall’imperturbabilità a tutta prova, il signor Spock. Fu tale il successo che si decise – operazione non del tutto nuova – di far seguire alla serie “live” una serie a disegni animati, doppiata dagli stessi attori. 
Ed ecco “Star Trek, animated series”: piccole storie della durata di 24 minuti, dove l’astronave Enterprise e il suo equipaggio vivono avventure in parte tratte dalla serie ma nella maggior parte nuove di zecca, stagliate su background fantastici, con assoluta economia di disegni e di tavole, e giocate con effetti d’animazione abbastanza semplici ed elementari, colori puri, senza ombre o sfumature, somiglianze puramente indicative e stilizzate. Ed è questo il fascino di queste storie – che abbiamo la possibilità di rivedere grazie a Netflix –: la loro semplicità da striscia fumettistica non sofisticata, narrata con il minimo di effetti, storie curiose, a lieto fine, dove i nostri personaggi conservano il loro carattere e lo declinano in forma semplificata ma ottimale. 
Un divertimento per grandi e piccini, lontano dagli stereotipi sofisticati, disneyani e non.

HOLIDAY IN HANDCUFFS - UN FIDANZATO PER MAMMA E PAPA'



Dopo essere incappato per scelta nel film natalizio il 25 scorso, rivedendo la prima versione del “Miracolo nella 34 strada”, ho iterato in ritardo il ricorso al “latte e miele” di prammatica vedendo su Netflix il filmetto per la tv, americano ma girato in Canada, “Holiday in Handcuffs” (“Un fidanzato per mamma e papà”, 2007). 
Un filmetto che ne ricorda un altro – i soggetti cinematografici sono come le note musicali, variabili all’infinito ma limitati di numero – quello del fidanzato finto affittato per far felici i parenti ansiosi. Stavolta si passa il segno: il fidanzato da esibire in famiglia viene addirittura rapito perché la ragazza possa mostrarlo ai suoi congiunti in quella sorta di rifugio montano isolato dal resto del mondo. Dopo aver tentato la fuga il sequestrato si arrenderà alla dolce violenza godendosi alla grande il calore di quella famiglia male assortita quanto strampalata, ma comunque “famiglia”. Se avete un briciolo di fantasia non farete fatica a intuire il finale. 
Attori tutti “in parte” e un po’ sopra le righe come si confà a un film-commedia del genere, gag amministrate con parsimonia, finale “politically correct”, con l’immancabile omosessuale accettato alla grande e il cambio di rotta delle figliole rispetto alle aspettative genitoriali. E scambio di doni sotto l’Albero. 
Ultima considerazione: qui come altrove e sempre più spesso, non viene mai chiarito perché il Natale – oltre ad essere la festa di famiglia per antonomasia – si chiami Natale: niente niente che prenda il nome dalla nascita di un Fanciullo in quel di Betlemme avvenuta circa duemila anni fa? Per usare un residuo di cultura manzoniana: Natale, chi era costui ?

THE RIVER KING


Guarda su Netflix

Vedi il panorama nevoso, volti poco o per nulla noti, e pensi che il film sia svedese o danese o su di lì, anche perché Netflix ti ha dimostrato che quei paesi, oltre ad aver dato i natali a due “mostri” del cinema quali Carl Theodor Dreyer ed Ingmar Bergman, sanno anche fornirci prodotti seriali niente male, tanto da essere diligentemente copiati dai furbi statunitensi.
Tutto sbagliato: il film di cui parliamo (“The River King”, 2005) è canadese e i panorami nevosi che impongono brividi gelidi, specie a uno spettatore freddoloso come me, sono proprio i loro. Ma il freddo nordico non incide solo sui panorami nevosi e sui ghiacci infidi, che celano le acque di laghi e acquitrini, ma anche sull’andamento della storia che è altrettanto infreddolito dello spettatore. Senza usare altri eufemistici escomatages, la noia è noia e questa storia, tratta da un romanzo di Alice Hoffman, dovrebbe garantire la suspense ma ne è del tutto priva. Parla di un ragazzo, probabilmente evaso da una scuola esclusiva, e ritrovato cadavere sotto i ghiacci: nonnismo andato storto? Omicidio o suicidio? Il povero poliziotto ci perde la testa, cercando di spezzare le previste omertà, ci scommette pure il posto aggirandosi fra la fauna giovanile, ma anche adulta, che dovrebbe aiutarlo a far luce. Alla fine dell’estenuante ricerca – estenuante soprattutto per noi spettatori – che vede tirare in ballo anche inquietanti tracce di sapore soprannaturale e strani riti pseudo-esoterici, la verità viene fuori, ammannita dai previsti centellinati flashback. 
Ammiriamo la cura con cui il regista ha voluto tradurre in immagini rarefatte un romanzo che prometteva bene, quelle distese bianche, quei dialoghi scanditi dalla neve che cade, il volto della fanciulla dai capelli rossi, il nuoto coraggioso di chi se la sente di solcare le acque, ma il tutto non carbura. Sarà per la prossima volta.

IL MONDO DEI REPLICANTI



Surrogati. Una parola che in me evoca i caffè di cicoria che i miei genitori consumavano negli anni del secondo conflitto mondiale. Ma qui la parola viene usata per identificare degli pseudo-robot in forma di “doppi” meccanici, strettamente collegati al cervello del principale e di cui il possessore può servirsi per farsi sostituire degnamente in ogni funzione vitale, insomma dei robot doppioni, belli come divi del cinema, giovani e funzionali, al massimo e oltre delle capacità umane. L’esistenza di questi sostituti funzionali provoca la giusta indignazione di chi non vorrebbe rinunciare alla proprio identità umana “numero uno”, comprese le rughe di vecchiaia, i malanni di salute e le magagne varie. 
Questo lo spunto che sceneggiatore e regista sviluppano in modo abbastanza maldestro nonostante il budget a disposizione. Un surrogato di Bruce Willis, levigato e ringiovanito quale nessun chirurgo plastico sarebbe stato in grado di fare, viene distrutto in uno scontro e il principale – un Bruce Willis notevolmente stagionato, stile Vodafone – rinuncia a crearsene un altro alla ricerca dell’umanità perduta. Sino scontrarsi con l’inventore dei surrogati che, in un rigurgito tardivo di pentimento per la sua invenzione, vorrebbe distruggerla insieme a tutta la pletora di surrogati che ormai gremiscono il mondo. Ma questo lo scopriremo via via. 
Sappiamo che il film ha attraversato molte vicissitudini creative, e si vede. Non bastano i mezzi e le abilità tecniche per sfruttarli al meglio, non basta la presenza magnetica di Bruce, non affievolita dalla sua attuale ricerca spasmodica della fibra, non bastano esemplari incidenti automobilistici e inseguimenti acrobatici. Ci vuole alla base una solida sceneggiatura e una chiarezza di svolgimento che qui non c’è. Il film rotola fra diverse tentazioni: film post-apocalittico, fantascienza, thriller? Peccato, perché preso sequenza per sequenza, sarebbe godibile!

I MUPPET NELL'ISOLA DEL TESORO


Nel 1990 mi trovavo a Orlando e fui fra gli invitati alla commemorazione funebre di Jim Henson, scomparso proprio in quei giorni, una commemorazione sui generis, molto all’americana, con battimano fragorosi e la presenza di Kermit, Miss Piggy, Gonzo & C., Jim Henson, il papà dei Muppet, creatore e patron di quei pupazzi assurdi e fuori da ogni schema tradizionale, costruiti con materiali morbidi e quasi sempre gestiti da burattinai, con occhi fissi e bocche enormi. Henson aveva inventato e dato vita – a partire dal 1955 – a un nuovo universo di essere antropomorfi, realistici come la maialina miss Piggy e la rana Kermit o completamente assurdi come il mostriciattolo Gonzo, l’orso Fozzie e tanti altri, agli antipodi dei dolci edulcorato animaletti alla Disney, ultima incarnazione televisiva dei burattini e ultimo connubio fra fantocci e attori reali. 
Il sodalizio negli anni Ottanta con la Walt Disney aveva aperto ai Muppet nuovi ambiziosi orizzonti. Non più brevi show destinati prevalentemente alla tv ma veri e propri film a lungometraggio, con scenografie, attori veri eccetera, di cui era stato promotore e animatore Brian, il figlio di Jim Henson. Rinnovati successi ma anche l’imprevedibile canto del cigno di un capitolo della televisione di fantocci. Fra non molto la Pixel con i suoi pupazzi digitali avrebbe completamente occupato il campo esautorando almeno in parte questo che all’epoca sembrava un prodigio d’invenzione e dando una concretezza materica, tridimensionale al vecchio cartone animato. I Muppet continuano ancora una felice carriera ma il loro mondo ha un che di passato.
Ho visto “L’isola del tesoro”, film ambizioso del 1996, dal frequentatissimo romanzo di Robert Louis Stevenson, con Muppet e attori, ottime scenografie e belle canzoni: una sorta di vicenda-musical nella classica tradizione disneyana. Bello, divertente soprattutto nell’affastellamento caotico dei pupazzi in festa, illogici e orripilanti se non fossero gioiosi e cordiali, il trionfo della fantasia e dell’assurdo. Mostriciattoli simpatici, sgorbi irresistibili, che non vogliono celare allo spettatore, adulto o bambino che sia, la caratteristica principe della marionetta e del burattino, quella di essere un essere dotato di vita autonoma e insieme dipendente da un mediatore o demiurgo che dir si voglia. Il mondo dei burattini e dei burattinai nell’estrema versione

HELL OR HIGH WATER

 


Il fatalismo – inteso come ineluttabile impossibilità di sfuggire al proprio destino – domina i personaggi di questa storia ambientata in una America sconfinata quanto desolata, la cui parte abitabile si riduce agli esili margini del nulla. Personaggi che sono dei “vinti”, per usare un termine caro a Giovanni Verga: due fratelli rinnovano in modo straziante il destino, più che le avventure, dei mitici fratelli James, predatori di banche con rapine improvvisate il cui buon esito è affidato semplicemente al caso, e inoltre un poliziotto al termine di una carriera, in attesa di intercettare i malviventi, quasi d’imbattersi in loro, e un altro poliziotto di origine indiana, che nella morte della sua razza pre-avverte la propria fine. 
“Qualunque cosa accada, a qualunque costo!” (significato reale dello slang statunitense “Hell or high water”, titolo del film): non c’è speranza di redenzione, e se c’è per uno solo di essi – che riesce a pagare l’ipoteca per preservare e restituire la fattoria ai suoi figli - è una speranza legata al caso, all’imprevedibile, e sarà accompagnata da una melanconica crisi interiore, non destinata a scomparire. Bandito e poliziotto saranno due sopravvissuti con la coscienza placata e inquieta per sempre. 
Il film, nei suoi ritmi lenti come suggeriscono gli orizzonti uguali e illimitati di questa singolare America, ha un suo innegabile fascino, un’ottima sceneggiatura, una robusta regia ed è ben sostenuti dai suoi interpreti, un Jeff Bridges per cui gli anni sono passati molto in fretta, che è il vecchio Texas Ranger in attesa di pensione, i due giovani banditi Chris Pine e Ben Foster, e qualche figurina ben raccontata in poche immagini e battute, come la vecchia cameriera del ristorante di sole bistecche. E quelle agenzie bancarie linde e quasi sempre vuote, unico segnacolo di civiltà in un paese incivile. Un’America attuale e insieme senza tempo.

HOSTAGES


Lo spunto parte da una molla che il cinema ha più volte e utilmente usato: sequestro di innocenti e successivo ricatto perchè uno di essi compia un atto grave per salvare i congiunti. Era la base di partenza di un ottimo film del 1955 come “Ore disperate”, che ebbe anche un remake meno riuscito nel 1990, e riecheggia, opportunamente modificato o variato, in molte opere cinematografiche e televisive. “Hostages” ne è un po’ la sagra. 
Un’ottima serie prodotta e realizzata in Israele nel 2013 - e che ovviamente gli americani si sono affrettati a rifare a casa loro - congegnata in dieci abilissime puntate: una illustre chirurga, scelta per operare il Premier del paese, viene ricattata da una banda di personaggi di varia estrazione che tiene in ostaggio la sua famiglia: uccidere l’uomo politico nel corso della banale operazione o assistere alla morte dei propri congiunti, due figli e marito. Tutto qui ma la vicenda si complica: la rete dei sequestratori e dei loro mandanti è vasta e insondabile, i quattro figuri divergono per estrazione motivazioni e comportamenti, la chirurga mette in atto varie espedienti per procrastinare la decisione e così via... 
Ci asteniamo dal riassumere una vicenda che, puntata dopo puntata, si struttura e si complica: buona sceneggiatura, sobria e robusta realizzazione, valida prestazione attorale con una protagonista molti brava e credibile, colpi di scena ben dosati. Insomma una signora “serie”. Ma è destino ormai che le serie migliori europee o altro – vedasi “House of cards” della BBC – vengono ridotte a tambur battente in versioni americane più prevedibili e “abboccate”, redatte secondo i furbi standard che vanno per la maggiore. E’ la stessa iniqua sorte che noi italiani riserviamo alle commedie francesi, da noi “rivedute e corrotte”, per usare una vecchia battutaccia. Triste, molto triste. 
E’ doveroso un aggiornamento dopo aver conclusa la visione delle dieci puntate. La soluzione della vicenda, impostata nella nona puntata e risolta nella decima, si impantana per un eccesso di intrigo che dal piano politico scivola in quello privato, con un colpo di scena finale inatteso quanto calato dall’alto. Come diceva il personaggio di Billy Wilder, “Nessuno è perfetto”.

IL GIORNO DELLA LUNA NERA




Nella bancarella dei film usati ospitata da Netflix ho scovato un film prodotto nel 1986, “Il giorno della Luna nera” di Harley Cokeliss, abissalmente distante per concezione e fattura da come si cucinano oggi i thriller, un film algido e legnoso che è debitore nei confronti del “noir francese”, ma nella versione Chabrol anni Settanta, del modo di concepire e rappresentare questi eroi senza storia, che si agitano senza emozionarsi in un mondo violento quanto inconcepibile. Un modo curioso di raccontare, molto datato, in cui i personaggi piovono dal nulla e nel nulla scompaiono, definiti soltanto da insistite riprese di volti, ma senza spessore, lasciando perdere psicologie e antecedenti biografici. Impossibile definire come nascano e perchè, chi siano i buoni e chi i cattivi. 
La storia, facilmente riassumibile e invece irraccontabile, si trascina assemblando momenti, talora anche ben descritti: un inseguimento, una rapina, una cazzottatura violenta e brutale, all’antica, calci e pugni senza arti marziali di mezzo, da cui il cosiddetto eroe senza qualità risorge con un solo piccolo livido alla tempia, una spedizione punitiva molto ben congegnata, un’automobile futuribile che sembra rubata a Batman, un garage planetario usato come quartier generale dai “poco di buono”, il tutto assemblato senza suspense, in modo algido, con la firma di John Carpenter come sceneggiatore, il quale vi esibisce anche Linda Hamilton, reduce da “Terminator”. Altrettanto singolare e datata è l’interpretazione, con un giovane Tommy Lee Jones che fa il verso a un Eddie Constantine aggiornato, ma senza averne il risvolto umoristico, con il suo classico volto da “duro” bloccato in un’espressione costante, e una Linda Hamilton, pettinata in modo impossibile, che ama e agisce da automa appassionato. C’è anche il solito cattivo di prammatica, Robert Vaughn, che non riesce nemmeno a capire perchè deve essere così cattivo. E la musica un po’ astrale di Lalo Schifrin a commentare stancamente il tutto. 
Protagonisti, antagonisti e comprimari condividono la stessa sconsolante mediocrità e, stando a questa prova, non è dato supporre che diverranno ottimi attori. Che distanza abissale dal thriller targato duemila, con i suoi personaggi nevrotici e ossessionati... Quelli di questo film si portano dietro il destino di “eroi maledetti” ma senza brividi e commistioni emozionali, anche quando fanno l’amore o distruggono fisicamente l’avversario. Per chi e perché? Per sottrarre una videocassetta, per fare un favore all’immancabile CIA, per recuperare una macchina rubata, per riconsegnare l’una e l’altra a qualcuno che ne è il legittimo o illegittimo proprietario?

IO, LEI E I SUOI BAMBINI



Abbiamo recensito qualche giorno fa “Babysitting”, un’originale commedia francese dove il rapporto fra il solito enfant terribile e l’adulto o gli adulti imbranati viene trattato in modo piuttosto originale e in parte imprevedibile. 
Con questo film – “Io, lei e i suoi bambini”, 2005 - rientriamo a pieno nel manuale: bambini terribili la cui principale attività è mettere in fuga i pretendenti della madre, adulto maldestro che per una strana sintonia viene alla fine, ma solo alla fine, apprezzato dai fanciulli che ne sanciscono l’ingresso in famiglia. E nel frattempo il lungo apprendistato: dell’adulto che, inizialmente avverso, apprende a stimare e ad amare i bambini, e dei bambini che, inizialmente decisi a distruggere l’intruso, imparano ad apprezzarlo. E c’è anche un passaggio intermedio in cui i bambini si dimostrano più adulti dell’adulto salvandolo da alcuni maldestri incidenti. 
Stavolta il manuale viene applicato a un film tutto di protagonisti di colore, con Ice Cube a far da capofila e da factotum, e si struttura nelle forme di un road movie dentro una vettura sfavillante che alla fine sarà diventata una carcassa ambulante. E nel corso del lungo trasferimento verso il Canada incontri strampalati ed episodietti esilaranti. Il film ha avuto anche un sequel nel 2007. 
Ice Cube, rapper e musicista di successo, lo avevamo visto in ruoli drammatici o d’azione pura (“Three kings” 1999 o “xXx2.The next level”, 2005), poi si è convertito alle commediole che in parte si autoproduce, con risultati piacevoli e convenzionali per “film per famiglia” di sicuro successo. Ci vogliono anche quelli!

DESIGNATED SURVIVOR

 


Sopravvissuto alla strage che ha distrutto il massimo consesso politico degli Stati Uniti d’America - Presidente compreso - un funzionario messo in salamoia nel caso di devastante sinistro, considerato quanto mai improbabile ma secondo una consuetudine nata durante la guerra fredda, Tom Kirkman diventa ipso facto il capo politico della potenza mondiale numero uno. Ma lui è un semplice funzionario e neanche tanto accetto alle alte sfere che erano in procinto di esonerarlo dal suo compito all’interno del gabinetto presidenziale per trasferirlo altrove. Diventato Presidente il sopravvissuto deve affrontare compiti immani. Li affronterà con molto rispetto per i musulmani, sbrigativamente imputati di genocidio dai soliti militari guerrafondai, ma con molto autorità nei confronti di governatori secessionisti. 
Sono arrivato alla quarta puntata e vado avanti perché la serie è ben fatta e costruita, intrigante quanto basta, con Kiefer Sutherland protagonista, veterano dei tanti ottimi cicli di “24”, che qui ha abbandonato i panni dell’indomito Jack Bauer, quindi non è più in versione D’Artagnan. La serie, “fresca di giornata”, cioè targata 2016, attraversa i temi del momento e li svolge nel modo più “politically correct”, seguendo i dettami della pubblica opinione più corriva: lotta all’integralismo, alla corruzione, alle fobie dei militari, agli intrighi dei politici bugiardi, ai tranelli dei funzionari troppo intraprendenti, sapiente cocktail multietnico declinato più a favore degli arabi che della negritudine. Un Presidente compassionevole ma rigoroso, tollerante ma decisionista, cioè “al bacio”. 
Un cast - come al solito in produzioni del genere - ben scelto e calibrato: Kiefer rinuncia alle prodezze da Jack Bauer per mostrarci il volto basito e preoccupato di un Presidente suo malgrado, conscio delle sue responsabilità. Riuscirà a sconfiggere i nemici interni ed esterni? E’ quanto vedremo.

BABYSITTING

 


Altro sottogenere che al cinema ha una storia lunga: non parliamo dei classici quanto del rigurgito di commediole che rappresentano il conflitto seminserio fra improvvisati babysitter maschili e bambini terribili, una costante anche nella programmazione degli ultimi anni. Ma questo “Babysitting” (2014) di Nicolas Benamou e Philippe Lacheau (che ne è anche il protagonista), redatto secondo il solito umorismo francese, li spiazza tutti. 
Un umorismo francese modernizzato, declinato in sintonia con lo spirito giovanile, ma ben lontano dai giovanilismi smaccati e allappanti del cinema americano. Storiella semplice e un po’ risaputa, più che una storiella uno spunto: tre giovani occupati presso un’industria con ruoli molto subalterni. Uno di essi si presta a far da babysitter d’emergenza nella splendida abitazione del suo principale, rinunciando alla prevista festicciola per il suo compleanno, ma gli altri due amici lo raggiungono nella casa del magnate e improvvisano per lui una sorta di “rave” che si fa sempre più sfrenato. Alla “notte brava” si unisce anche l’enfant terribile, il ragazzino messo a dormire che si è risvegliato anzitempo, che con gli improvvisati amici vive buona parte dell’avventura, compreso uno sfrenato intermezzo al Luna Park. Finale in gloria. Tutti e tre in galera per i danni arrecati alla magione e all’ordine pubblico, ma bimbo riconciliato con i genitori nonché con i nuovi indimenticabili sodali. 
Il film è costruito attorno a un pretesto: i due genitori, convocati dalla polizia nella loro casa “distrutta” assistono alla ripresa casalinga fatta da uno dei partecipanti che ha immortalato dilettantisticamente l’inverosimile e inverecondo crescendo della grande kermesse. 
“Babysitting” è un film pregevole e per più motivi; primo, perché la descrizione della sarabanda è esemplare, con uno stile di ripresa falsamente improvvisato ma senza lenocini e compiacimenti da Cine-club; secondo, perchè i giovani protagonisti, bambino compreso, sono bravi e simpatici; terzo, perché una volta tanto in film del genere vengono evitate pruderie e conclusioni “politically correct”, cioè ipocritamente moraleggianti - la notte a cui partecipa il bimbo è chiaramente trasgressiva-; quarto, perché la coppia dei genitori, fra cui si esibisce la signora Savoia, è altrettanto simpatica e non prevedibile. Ma il film non è una semplice sommatoria di questi motivi, è una sbrigliata commedia tutta da vedere. 
So che del film è stato realizzato un sequel. Non oso pensare cosa ne abbia fatto il remake nostrano apparso – e pensiamo scomparso – pochi mesi fa.

IL CACCIATORE DI DONNE



Il killer – in italiano: l’assassino seriale – è di gran moda. Non c’è film-tv o tele-serie degni di rispetto che non spiattelli le avventure di un assassino che prende gusto al suo lavoro, ovviamente sino a quando un poliziotto, pertinace quanto sbertulato dai superiori, riesca a metterlo spalle al muro. Dopodiché, spesso ma non necessariamente, inizia la diatriba per capire se il nostro killer lo faccia per gusto o per malattia. Una fortunata serie televisiva – “Dexter” – ha addirittura cantato le avventure di un killer che unisce il piacere d’ammazzare il prossimo all’amore sviscerato per la giustizia. 
A questo punto, incappando nel “Cacciatore di donne” (2013), avevo avuto la prima impressione che si trattasse dell’ennesima storia di killer. Nella fattispecie di un killer che si divertiva a spassarsela con fanciulle in fiore per poi farne animali da cacciare nella gelida Alaska, fra stentate betulle e ostili panorami. E invece no, si trattava – mi assicurava la didascalia iniziale - di una storia vera, con tanto di foto, prima dei credit finali, delle autentiche disgraziatissime protagoniste: un killer esagerato che aveva sterminato un’infinità di ragazze prima di essere individuato e messo fuori combattimento. 
Nel nostro film il poliziotto bravo quanto incompreso ha la faccia ormai spenta di Nicholas Cage mentre l’assassino è interpretato altrettanto di malavoglia da John Cusack, Ma c’è una ragazzina molto brava, Vanessa Hudgens, che riabilita il tutto e la regia - opera prima dell’esordiente neozelandese Scott Walker - racconta la storia con efficace nervosismo, stile fluido e una camera gagliardamente mobile. 
Insomma da vedere? Fate voi!

CHICKEN PARK



In America è di moda abbinare alla classifica per i film più belli - gli Oscar - quella per i film più brutti e per le interpretazioni più disastrate dell’anno – Razzie Awards - : ognuno si diverte come può. Con un gusto che ha del sadico Netflix ha messo in cartellone quello che ha la fama di essere il film italiano più brutto di tutti i tempi, “Chicken Park” interpretato e firmato da Jerry Calà con l’ausilio e il supporto di Galliano Juso.
Fama scroccata, diciamo noi dove averlo diligentemente visionato. C’è o c’era in giro molto di peggio. Il film è il classico esempio del film all’italiana, furbo quanto povero, un’ingenua parodia di “Jurassic Park” realizzata con grandi teste e zampe in cartapesta di polli-gigante e con l’uso di immagini in sovrimpressione con personaggi resi piccolini accanto a polli grandi come dinosauri, effetti ottici che ricordano quelli del vecchio King-Kong del 1933 e sono altrettanto approssimati, con giungle e parchi ritagliati a Santo Domingo con il benevolo appoggio delle autorità locali, dove la fantasia e l’arte d’arrangiarsi cinematografica – specialità tutta nostrana di cui ho fatto uso più volte anch’io - suppliscono ai mezzi e alla carenza del budget. Una critica o un complimento? L’una e l’altro. 
Perché il filmetto, ad onta di alcuni inutili e insistite variazioni pseudo-erotiche, è un raro esempio di tentativo demenziale, zeppo di allusioni e citazioni parodistiche (dal “Jurassic Park” di Stevens alla “Rosa purpurea” di Woody Allen, alla televisiva “Famiglia Addams”), con una serie di gag che talvolta funzionano. Il limite è dato anche dall’approssimazione volonterosa degli interpreti nonché dalla fragilità di Jerry Calà, simpatica presenza in tanti filmetti ma incapace di sostenere un personaggio – comico? – per un intero film. 
No, carissimi spettatori, ho visto molto di peggio. Non stracciamoci le vesti per un divertimento dove le ideuzze e le gag sovrastano la disponibilità economica, dove s’inventa e si racconta un po’ a braccia. Il surreale e il demenziale è così raro nei nostri film seriosi – seriosi compresi quelli comici – che possiamo anche accontentarci.

IMPIEGATI... MALE!



Il mondo degli impiegati, gioia e delizia dei narratori per parole o per immagini, dalle “Miserie di Monsù Travet” di Vittorio Bersezio e film di Mario Soldati, 1945, a “Policarpo ufficiale di scrittura” (1959) ancora di Soldati ma tratto da Gandolin, a “Impiegati” (1985) di Pupi Avanti, eccetera. Impiegati pubblici col cartellino o la scheda magnetica da aggirare o da evadere, e impiegati privati con il loro bravo computer davanti al naso, impiegati soddisfatti o irrequieti. 
Si fa disponibile ora, grazie a Netflix, questo piccolo film ironico (“Office Space” di Mike Judge, 1999) sugli impiegati di un grande cartello americano, quotidianamente dediti a un lavoro del quale sfugge loro l’importanza o la necessità, vessati dal timore di possibili licenziamenti o soggetti al controllo di esperti beoti che possano giudicare desueto o inutile il loro specifico settore. Critiche in parte usuali e un po’ scontate, come nelle opere citate o in molte altre e come in tante vignette umoristiche, oppure critiche originali, sfornate dal repertorio impiegatizio USA al quale il nostro compartimento impiegatizio sempre più somiglia o è destinato a somigliare. Il film le raccoglie tutte e le amministra con garbo. 
Una storiella curiosa. L’impiegato renitente alla routine che, grazie ai sortilegi di un ipnotista, riesce a dare un calcio alle regole imposte dal solito capoufficio cretino e che, grazie a questo atteggiamento sanamente menefreghistico, anziché ricevere l’ostracismo dei competenti che esaminano le mansioni, riceve inaspettati elogi e promozioni. E poi il sodalizio truffaldino fra tre giovani impiegati al fine di frodare la loro macroscopica ditta con un espediente contabile-digitale (“chi di spada ferisce di spada perisce” sarebbe il caso di dire) con relativo pentimento finale e salvezza dal disastro grazie a un provvidenziale incendio. Ma ci sono altre sequenze gustose, come quella prima dei titoli di testa, con le auto incolonnate in un ingorgo da traffico urbano. 
Insomma un filmetto leggero che in America, inizialmente bocciato al botteghino, sembra sia diventato un cult, grazie soprattutto ai DVD. Un gruppo di interpreti simpatici e la presenza di Jennifer Anniston in versione originale.