IMPIEGATO DEL MESE


E’ una delle più belle e malefiche invenzioni della cosiddetta società dei consumi, made in Usa e modicamente importata soprattutto nelle filiali europee delle imprese statunitensi: ogni mese l’impiegato che si è dato più da fare meritandosi la riconoscenza dei superiori viene gratificato con un bella foto a colori affissa in mostra all’ingresso o nella hall di istituzioni commerciali. E ricomincia la gara per meritarsi simile onore, probabilmente corredato da gratifiche, nel mese che segue. Come succede ai secchioni e ai primi della classe, l’impiegato del mese, quasi sempre viscido e lecchino, viene vezzeggiato dai superiori e disprezzato dai colleghi, con tutte le prevedibili situazioni quotidiane, facilmente immaginabili anche se lo sceneggiatore non vola alto. 
La lunga introduzione per commentare un film che forse non ne avrebbe bisogno. Quando ci si basa su una storia prevedibile con finale ultraprevedibile, si allineano tipi buffi, cioè le cosiddette macchiette, si esibiscono come protagonisti un volonteroso belloccio e una bella fanciulla possibilmente bionda il film è già fatto, ma può venirne fuori sia una commedia divertente e sufficientemente comica che una commedia decisamente scema e già vista infinite volte. 
“L’impiegato del mese” si ferma a mezza strada ottenendo la sufficienza: in fondo diverte “qb”– come dicono i bugiardini delle medicine – cioè “quanto basta”.

IL DIVO



Sono incappato nel più brutto film visto da molti anni a questa parte, “Il divo”.
Una lunga passerella pseudopolitica per quegli attenti lettori di quotidiani che da un titolo sanno risalire a dei fatti che qui non vengono raccontati ma solo brevemente illustrati da lambiccate inquadrature pletoriche e pretenziosamente “artistiche”. 
Fra tanti volti di politici siglati da apposite didascalie, degni di figurare in un “album Panini”, si aggira, mummia vivente, una squallida imitazione del compianto Oreste Lionello, già arguto imitatore di Andreotti. La nuova performance di Toni Servillo non raggiunge gli scarsi e deprecabili livelli dell’attuale Bagaglino. 
La chiave polemica di tutto il film è validamente riassunta nei tre minuti nei quali uno uno Scalari, interpretato – stavolta validamente - dal bravo Giulio Borsetti, intervista Andreotti sulle eccessive casuali coincidenze della sua storia politica. Quei pochi minuti sono un valido “cortometraggio” che rendono superfluo ed ermetico il lungo logorroico trascinarsi di inquadrature cupe, notturne, funeree, che forse aspirerebbero al grottesco, nelle quali si aggira la macchietta-mummia-mostro del sedicente Andreotti.
C’è poi uno sbaglio di fondo: il “cattivo” non deve essere necessariamente “brutto”. Il cosiddetto potere “diabolico” di Andreotti non risiede certo – o meglio risiedeva - in una diabolico orripilanza fisico-psicologica ma, al contrario, in un mellifluo potere di seduzione. Chi l’ha detto che il pifferaio di Hamelin deve essere un mostro? Chi ha accostato almeno uno volta il senatore sa quanto l’uomo potesse essere “ammaliatore”: forse in questo risiedeva la sua pericolosità. 
Dunque un film, brutto, sbagliato, insopportabile, noioso, inutile, politicamente sbagliato quanto “politically correct”. Consigliamo a Sorrentino una cura intensiva di Oliver Stone, o qualche endovena di Francesco Rosi. Cura da estendersi all’inclita critica. 

P.S. Rileggo questa mia minirecensione scritta di getto nel lontano 2008, dopo aver visto "Il divo" e prima che Sorrentino divenisse uno dei padri della patria. Non volli e non voglio infierire occupandomi dei successivi "capolavori", ma come diceva quel tale film attendo che un bambino innocente, passando dalle sue parte, possa ammettere “Il re è nudo!!!”

PREMONITION



Il vasto carniere di Netflix mi consente il recupero di un film del 2007, che in realtà sembra più un episodio del vecchio “Ai confini della realtà” o del nuovo “Black Mirror”. Ma come si diceva una volta, “i maiali sono stati messi all’ingrasso”, in altre parole uno spunto in grado di sostenere i soliti quaranta minuti è stato dilatato per raggiungere impunemente l’entità e la solidità di un normale lungometraggio.
Lo spunto è costituito da una serie di premonizioni che cadono sulla testa di un gentile madre di famiglia, con marito e due figliolette a carico affettivo. Un lugubre sceriffo viene ad annunciare alla donna la morte del marito a seguito di un pauroso incidente stradale. Disperazione. Ma al successivo risveglio mattutino la donna trova che suo marito è vivo e vegeto. Successivo risveglio mattutino e ci troviamo in piena veglia funebre. E così via, avanti e indietro fra previsione della realtà e realtà effettuale (ma quali delle due realtà è veramente ... reale?) finché i fili s’intrecciano e la donna si trova ad essere partecipe o forse causa della sciagura. 
Il film si regge tutto sulla carica “presenzialista” di Sandra Bullock che si è fatta scrivere un film su misura dove giocare la sua carica drammatica. Brava e carismatica senza dubbio, anche se rischia di voler fare ad ogni costo l’asso piglia tutto riducendo a zero o quasi i comprimari. Ridotto a 45 minuti il film sarebbe perfetto, ma allora avremmo avuto solo un episodio per una delle serie di cui si è detto.

FAUDA



Il panorama delle produzioni seriali sta ampliando l’orizzonte produttivo più di quanto abbia fatto il cinema. E in questo la filosofia di Netflix sta ottenendo notevoli risultati. Valgano per tutti le serie di fabbricazione brasiliana di “Narcos” che, oltre a rivelare attori autoctoni, hanno introdotto e promosso un nuovo modo di narrare, ispirato alla realtà ma non ridotto tout court a “storiella” secondo le regole dell’affabulazione tv. Ma è anche il caso di realizzazioni made in Israele che non a caso, come “Homeland”, “Hostages” e altri, sono state puntualmente “rifatte” dalla tv statunitense. 
Ed ora questo “Fauda” – il termine arabo significa caos - che dei purtroppo incombenti e onnipresenti conflitti israelo-palestinesi fa materia di severo, allucinante racconto televisivo. Ed è un racconto concitato, aspro, violento, con personaggi inediti e attori antidivi per eccellenza. Gli uomini delle squadre speciali del Mossad e i terroristi arabi di Hamas si confondono in modo quasi indistinguibile per l’odio reciproco e la mancanza di scrupoli che entrambi condividono e per le azioni violente quanto immotivate che in fondo si assomigliano: valgano a macabra esempio l’eccidio perpetrato durante il matrimonio arabo e le successiva rappresaglia terroristica messa in atto dalla moglie della vittima. 
La serie mette sotto accusa con severità entrambi i fronti. Altro suo merito innegabile è il realismo delle location e degli ambienti, promosso anche dall’uso frequente della lingua araba. Insomma le serie tv ci aiutano ogni giorno di più a prendere le distanze da un vecchio standard romanzesco quanto retorico di narrare in generale l’azione e in particolare i conflitti etnici, un tempo con attori “ariani” truccati da asiatici, indiani o altro, ed oggi mettendo a frutto - ahimè! - il terribile insegnamento della cronaca. Che è sempre meno “cinematografica” ed entusiasmante. Non uso il termine “realismo” perché una rappresentazione cinematografica o televisiva è sempre “racconto”, quindi “mediazione”.

L'UOMO NELL'OMBRA



Scrittore Fantasma, in inglese “Ghost writer”, che il distributore italiano traduce nel più equivoco “L’uomo nell’ombra” (2010). Traendo materia da un romanzo di Robert Harris, Polanski si riaccosta in certo senso a quell’atmosfera di conturbante e indefinibile mistero che era al centro del suo film più fortunato, “Rosemary’s baby”. Un giovane ma già esperto “scrittore fantasma” viene incaricato di redigere la biografia di Adam Lang, navigato uomo politico. Si accosta al suo lavoro con la curiosità dello zelante ricercatore ma scopre via via strani indizi che sembrano condurlo verso la scoperta di un verità scomoda. Verità che, in definitiva, gli verrà impedito di rivelare, come avviene per il novanta per cento delle verità scomode. 
La pellicola cammina sulle spalle di questo personaggio coraggioso, animato da un’inquietudine profonda - o chiamiamola ansia di scoprire - spinto sulle tracce di una vita celebrata dalla pubblica fama ma tutt’altro che esemplare e degna di rispetto, dato che sulla testa del personaggio sembrano pendere addirittura un’accusa per crimini di guerra e torture. E insieme è la scoperta dell’imprevedibile “nido di vipere” e di corresponsabili che circonda il suo celebrato ma equivoco politico. Cosa spinge questo personaggio timido e inquieto, che Ewan Mac Gregor interpreta con eccezionale bravura, a non accontentarsi delle facili verità, violando l’immagine ufficiale officiata dalla stampa benevola? 
Il film, costruito con quella padronanza del mezzo che a Polanski è doveroso riconoscere, avvolge lo spettatore in spire lente, che crescono piano piano, tuffando il nostro “eroe” in un’atmosfera malsana che il mare livido e le spiagge aride dell’isola di Martha’s Vineyard nel Massachussetts, in cui la storia è ambientata, non riescono a dissipare. Un buon film premiato da numerosi Premi internazionali.

LO SCANDALO ENRON


Un filmetto televisivo, uno di quelli di marca leggera, diretto da Penelope Spheeris specialista in commedie comiche (Fusi di testa, Piccole canaglie), può essere più drammatico e severo di tante inchieste seriose e circostanziate, come quel pretenzioso film documentario del 2003 sullo stesso argomento. 
E’ a nostro parere il caso di questo “Scandalo Enron” che, trascrivendo la storia autobiografica di Brian Cruver, narra le avventure di un giovane con curriculum brillante e ricco di titoli di studio promosso – o caduto - fra le grinfie di una delle più floride e agguerrite imprese d’America. Arriva spaurito, viene travolto nella bolgia degli impiegati, si rende conto dell’andazzo finchè, sposando la filosofia aziendale, capisce che occorre buttarsi all’arrembaggio seguendo le disposizione impartite dai superiori e messe in atto dai colleghi più smaliziati. Tutto a gonfie vele, curve di crescita che volano in alto, successi trimestrali celebrati con orgette e così via. 
Dovrebbe essere la parte più leggera del film, con questo giovane irretito e conquistato dalla smania del successo che cede all’offerta di cambiare vita nella corsa al più sfacciato benessere e consumismo, e invece è la più triste, forse malgrado le stesse intenzioni della regista, e si fa specchio non certo distorto della filosofia truffaldina che funge da modello e incarna lo stile delle grandi società USA, dove il fatturato la fa da padrone, obnubilando arricchimenti selvaggi, conti gonfiati, statistiche falsate, bonus stratosferici eccetera. Poi il film ci racconta la progressiva irresistibile caduta della grande azienda e la rovina dello stuolo dei suoi impiegati, la disoccupazione – generalmente di corta durata, beati loro! – e l’eclisse dei magnati che se la cavano comunque. 
Il tutto narrato con mano impietosa ma leggera, senza sovraccaricare lo spettatore di dati e considerazioni socio-filosofiche ma descrivendo una realtà con spiritoso acume e celando dietro l’apologo uno sguardo impietoso ma non troppo.

REVENGE


Vendetta, tremenda vendetta!, invocava il povero Rigoletto brutalmente offeso e ferito negli affetti da quel farfallone del Duca di Mantova. 
Vendetta, ripete a se stessa la bionda fanciulla che, sulla tracce di Rigoletto o più ancora del vendicativo Conte di Montecristo, si appresta a far piazza pulita dei nemici che le hanno rovinato l’esistenza, separandola bambina da suo padre e trasformando il genitore, a forza di menzogne e di truffe, da fortunato finanziere in condannato per crimini diversi quanto efferati. E la bionda fanciulla, una volta cresciuta e trasformatasi in un’avvenente e navigata capitalista – speriamo ci venga spiegato prima o poi come ha fatto - si accinge a rovinare tutti quelli - e sono proprio tanti – che hanno fatto del male a lei e all’amato e perduto genitore. 
Se non fosse un fanciulla moderatamente bellina, la protagonista di “Revenge” ci apparirebbe un’erinni decisamente sadica, non certo degna della nostra approvazione, che invece siamo ben disposti a concederle, visto che è l’eroina della serie di cui stiamo vedendo le prime puntate, serie che vanta come primo nome in cartellone quello della navigata Madeleine Stowe, un po’ stagionata e quindi retrocessa al ruolo di avvenente genitrice. 
La serie si fa vedere con interesse, è piacevole, pullula di personaggi giovani dalla storia sufficientemente prevedibile e, con l’aiuto degli ormai consueti immancabili flashback, ci fa recuperare via via i tristi trascorsi di papà, della bimba nonché degli amici-nemici che la fanciulla si appresta ad abbattere uno dopo l’altro, come altrettanti birilli. Ci chiediamo come lo schema abbia potuto resistere per ben quattro stagioni ma andiamo avanti con piena fiducia.


SPOILER  (QUARTA STAGIONE)


Con la 23° puntata della quarta stagione ho concluso personalmente la visione di questa serie, trasmessa in Usa con successo dal 2011 al ‘15 e vagamente ispirata alla seconda parte del dumasiano “Conte di Montecristo”, quella appunto destinata alla vendetta del Conte su tutti i suoi nemici. E’ il fine perseguito dalla nostra Amanda sotto falso nome: inseguire e distruggere tutti quelli che hanno causato la rovina e la morte del proprio padre. Almeno sino a quando la serie – nella sua quarta stagione - prende il largo dalla sua ispirazione, con il ritorno del padre che non è morto e la lotta fa le due “signore”, la terribile e seducente Victoria, a cui Madeleine Stowe presta il suo volto e la sua silouette, e Amanda, che per meglio vendicarsi ha assunto il nome di Emily, di cui la giovane Emily VanCamp offre una valida interpretazione. 
Interpretazioni tutte, quella delle due dame come degli altri numerosi personaggi portanti, sempre un po’ sopra le righe, quasi una versione di lusso di quel rituale “sopra le righe” mediata dalle fiction popolari, a base di sguardi infidi o sornioni che annunciano in anticipo il comportamento dei personaggi. 
La serie, nel suo insieme, è appassionante, anche se talora si sviluppa un po’ troppo “in progress”, aggiungendo risvolti, vicende e personaggi strada facendo, per prolungarne la vita forse oltre il necessario.
Ecco, le fiction popolari dovrebbero prenderne esempio: eventi che si accavallano, sviluppi drammatici che si succedono “stile Matrioska”, distinzione sempre facilmente individuabile fra i “buoni” e “cattivi, ma con rovesciamenti di campo e inevitabili cambiamenti di rotta, interpreti efficaci, personaggi ben caratterizzati, buona scelta degli ambienti e dei costumi, a cominciare dal principale “luogo deputato”, cioè le due ville non lontane dalla costa sabbiosa e dal mare.

TRIAGE



Strano film del 2009, firmato dal regista e sceneggiatore bosniaco Danis Tanovic e interpretato da attori di diversa nazionalità, l’americano Colin Farrell, la spagnola Paz Vega e l’inglese Christopher Lee, già conte Dracula: dunque figlio di una complessa coproduzione. Film sui postumi di un feroce conflitto - Kurdistan, anno 1988 – sul fotoreporter che vi ha preso parte, coinvolto in un feroce agguato fra curdi e iracheni, e che ne è uscito distrutto nel fisico ma più ancora nel morale e nella psiche. Scopriremo via via nel corso della narrazione la causa di questa sua crisi, rievocata con insistiti flashback che mostrano i momenti convulsi del tentato salvataggio - e poi dell’abbandono - di un compagno di vita e di sventura. E sono scene cruente, di una crudeltà di rado raggiunta altrove. 
Il film è cupo, depressivo e non poteva essere altrimenti, forte e violento nelle scene belliche: quella carneficina spietata, l’amputazione subita dall’amico, l’eliminazione dei feriti irrecuperabili da parte del pietoso-spietato medico curdo nel precario improvvisato ospedaletto da campo (“Trage” significa appunto smistamento: chi poter salvare e chi lasciar morire tra i feriti). Più impacciato il film quando si tratta di toccare la sfera psicologica, dove si sfiora il dejà vu, nonostante la sicura prestazione del vecchio attore inglese che per noi rimarrà sempre Dracula. Colin Farrell, ex-promessa un po’ perduta nel corso degli anni, presta il suo volto sofferto. Pleonastiche le interpretazioni femminili. 
Un film che non riesce a raggiungere la spietata compattezza a cui aspirerebbe tanto da suscitare la sensazione di un’occasione, se non sprecata, un po’ dispersa.

THE TRUTH ABOUT LOVE


Vorrei affermare, o meglio ribadire, la piena legittimità del film cretino. Non è necessario che tutti i film – come tutti i dischi, tutti i libri, tutte le serie tv o tutti i giochi di società – debbono essere intelligenti o perlomeno innocui o placidamente evasivi. No, ha pieno diritto di esistere anche un film cretino. Ma stavolta si esagera.
Voglio parlare di “The trouth about love” (2005) che sarebbe come dire “La verità sull’amore”. Un’offesa all’amore ridotta a uno stolido affare di corna. Ma corna tranquille, amplificate nei discorsi, intrecciate a giochetti erotici da ex casa chiusa. Lo spunto: per troppa precipitazione un tizio invia un cosiddetto “San Valentino” alla moglie del suo migliore amico. Di qui si scatena un gioco delle coppie degno della peggior pochade francese di fine secolo, ma quelle almeno facevano ridere. Amante e moglie a fare a gara per riconquistare gli ardori scemati di un avocato con la faccia da cretino, sorelle il cui unico legame affettivo è parlare delle prestazioni dei rispettivi maschi, ma alla fine va tutto a posto e la protagonista potrà raggiungere l’amato inconfesso che, perse le speranze, sta per prendere il volo. 
Raccontato così potrebbe addirittura sembrare divertente, ma in realtà non lo è, nonostante l’intraprendente protagonista, Jennifer Love Hewitt, celebrata divetta della canzone e della tv, sia onnipresente e ne faccia di tutti i colori. E non lo è anche per la scelta degli altri interpreti che, pur prodigandosi in cachinni, risultano pochi centimetri al di sopra dello squallore. Insomma un campionario pressoché completo delle gag che un tempo - ma oggi ancor di più - sembrano caratterizzare la commedia americana dell’ultima generazione, ma offerte a livello minimo. E’ questo l’andazzo di quella che una volta si chiamava la “sophisticated comedy”?

AMERICAN ODYSSEY


Il mondo arabo dell'Islam fa irruzione – e non da oggi – anche in molte serie televisive sino a diventarne di fatto protagonista. Segno dei tempi - direbbe un filosofo -, della centralità di quel mondo affermatasi in modo drammatico e divenuto l’incubo del nostro presente. Ricordiamo le stagioni di “Homeland”, ottima serie USA ricavata da una serie israeliana.  
E’ la volta di un’altra ottima serie, “American odissey”, che getta uno sguardo acuto quanto impietoso sulle connivenze fra il mondo degli affari e quello del terrorismo, con un abbrivio che potrebbe piacere a Oliver Stone: una squadra speciale adibita alla cattura di un importante terrorista scopre alcuni file in un computer i quali suggeriscono che una grande società statunitense stia finanziando i jihadisti e li rifornisca di armi. Ma i poteri militari, messi sull’avviso della incresciosa scoperta, decidono di eliminare la squadra speciale per evitare la divulgazione di una cospirazione internazionale che ne coinvolge i più alti vertici. Alla brutale rappresaglia sfugge una soldatessa, unica sopravvissuta della sua squadra. Diverrà la protagonista di una fuga spericolata attraverso l’Africa per sfuggire alla morte e avvertire “i buoni”. Si uniscono alla spasmodica odissea alla scoperta della verità un ragazzo arabo, un giovane rivoluzionario, un avvocato integerrimo, una bambina che non crede alla morte di sua madre e così via. 
I filoni si intersecano con molta sapienza e, pur nella complessità dei collegamenti, non diventano mai speciosi e incomprensibili, rivelandoci ancora una volta come gli sceneggiatori americani siano la vera forza portante della serialità. I personaggi sono tanti e tutti molto validi, disegnati con vigore. Insomma una serie emozionante, avvincente, tutta da seguire. Purtroppo la prima stagione non ha avuto seguito, “pare” per lo scarso successo: "Come tutti temevate, siamo stati cancellati", ha scritto a suo tempo Peter Horton, creatore della serie. Ispirarsi alla realtà va bene ma quando è troppo è troppo.

CUCKOO


Figlia probabilmente degli sketch radiofonici la situation comedy (sit-com) è stato ed è uno dei generi portanti della televisione popolare americana: situazioni giornaliere e genericamente verosimili ricreate in un ambiente unico, di solito il soggiorno di una casa borghese, con pochissimi accessori, una scala che porta a un misterioso e invisibile secondo piano, una seconda stanza, uno striminzito giardinetto. E al centro le vicissitudini di una famigliola, genitori, figliolanza assortita: piccola peste, giovinetto/a birichino/a, mamma chioccia e papà sfaticato o sognatore e qualche vicino di casa, solitamente impiccione, come elementi fissi. Nel corso degli anni sono fiorite numerosissime sit-com più o meno inamidate o ossidate, con un po’ di esterni e qualche trasferta. Riprese in “quasi diretta”, spesso arricchite da risate fuori campo prodotte da un pubblico pilota e appositamente rinforzate. Attori scelti fra quelli più inclini a districarsi fra suggerimenti auricolari, tic, grimaces e cachinni. Fra gli esempi più attuali della rivisitazione della sit-com classica possiamo citare le varie stagioni di “Modern family”, con quella famiglia assortita e variegata di cui si celebrano le quotidiane avventure o, passando a un prototipo a cartoons, le avventure di quella impagabile famiglia che sono i “Simpson”. 
E veniamo a “Cuckoo”, serie inglese targata BBC, che è tutto questo e il contrario di tutto questo, di cui ho terminato ieri sera la seconda stagione, molto difforme dalla prima serie che puntava tutto su un personaggio principale poi sparito e dimenticato. Ancora una famiglia circondata da amici – pochi e un po’ infidi -, ancora una madre possessiva e un padre sognatore e sfaticato, con in più un deciso spirito trasgressivo e un pizzico di surreale che non guasta: un giovane ospite un po’ strampalato, “traviato” o “educato” da un guru, e poi un figlio sporcaccione e una figlia con problemi di adattamento sentimentale. 
Serie molto divertente, apprezzabile per la scrittura originale che mescola le solite piccole prevedibili avventure casalinghe, debitamente aggiornate, a un po’ di imprevedibile bizzarria, e per gli attori, esagerati come da copione, ma che colpiscono nel segno. Insomma a me ha francamente divertito. E vai con la terza stagione