Il mondo arabo dell'Islam fa irruzione – e non da oggi – anche in molte
serie televisive sino a diventarne di fatto protagonista. Segno dei
tempi - direbbe un filosofo -, della centralità di quel mondo
affermatasi in modo drammatico e divenuto l’incubo del nostro presente.
Ricordiamo le stagioni di “Homeland”, ottima serie USA ricavata da una
serie israeliana.
E’ la volta di un’altra ottima serie, “American
odissey”, che getta uno sguardo acuto quanto impietoso sulle
connivenze fra il mondo degli affari e quello del terrorismo, con un
abbrivio che potrebbe piacere a Oliver Stone: una squadra speciale
adibita alla cattura di un importante terrorista scopre alcuni file in
un computer i quali suggeriscono che una grande società statunitense
stia finanziando i jihadisti e li rifornisca di armi. Ma i poteri
militari, messi sull’avviso della incresciosa scoperta, decidono di
eliminare la squadra speciale per evitare la divulgazione di una
cospirazione internazionale che ne coinvolge i più alti vertici. Alla
brutale rappresaglia sfugge una soldatessa, unica sopravvissuta della
sua squadra. Diverrà la protagonista di una fuga spericolata attraverso
l’Africa per sfuggire alla morte e avvertire “i buoni”. Si uniscono
alla spasmodica odissea alla scoperta della verità un ragazzo arabo, un
giovane rivoluzionario, un avvocato integerrimo, una bambina che non
crede alla morte di sua madre e così via.
I filoni si intersecano con
molta sapienza e, pur nella complessità dei collegamenti, non diventano
mai speciosi e incomprensibili, rivelandoci ancora una volta come gli
sceneggiatori americani siano la vera forza portante della serialità. I
personaggi sono tanti e tutti molto validi, disegnati con vigore.
Insomma una serie emozionante, avvincente, tutta da seguire. Purtroppo
la prima stagione non ha avuto seguito, “pare” per lo scarso successo:
"Come tutti temevate, siamo stati cancellati", ha scritto a suo tempo
Peter Horton, creatore della serie. Ispirarsi alla realtà va bene ma
quando è troppo è troppo.
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