Un filmetto televisivo, uno di quelli di marca leggera, diretto da
Penelope Spheeris specialista in commedie comiche (Fusi di testa,
Piccole canaglie), può essere più drammatico e severo di tante inchieste
seriose e circostanziate, come quel pretenzioso film documentario del
2003 sullo stesso argomento.
E’ a nostro parere il caso di questo
“Scandalo Enron” che, trascrivendo la storia autobiografica di Brian
Cruver, narra le avventure di un giovane con curriculum
brillante e ricco di titoli di studio promosso – o caduto - fra le
grinfie di una delle più floride e agguerrite imprese d’America. Arriva
spaurito, viene travolto nella bolgia degli impiegati, si rende conto
dell’andazzo finchè, sposando la filosofia aziendale, capisce che
occorre buttarsi all’arrembaggio seguendo le disposizione impartite dai
superiori e messe in atto dai colleghi più smaliziati. Tutto a gonfie
vele, curve di crescita che volano in alto, successi trimestrali
celebrati con orgette e così via.
Dovrebbe essere la parte più leggera del film, con questo giovane irretito e conquistato dalla smania del successo che cede all’offerta di cambiare vita nella corsa al più sfacciato benessere e consumismo, e invece è la più triste, forse malgrado le stesse intenzioni della regista, e si fa specchio non certo distorto della filosofia truffaldina che funge da modello e incarna lo stile delle grandi società USA, dove il fatturato la fa da padrone, obnubilando arricchimenti selvaggi, conti gonfiati, statistiche falsate, bonus stratosferici eccetera. Poi il film ci racconta la progressiva irresistibile caduta della grande azienda e la rovina dello stuolo dei suoi impiegati, la disoccupazione – generalmente di corta durata, beati loro! – e l’eclisse dei magnati che se la cavano comunque.
Dovrebbe essere la parte più leggera del film, con questo giovane irretito e conquistato dalla smania del successo che cede all’offerta di cambiare vita nella corsa al più sfacciato benessere e consumismo, e invece è la più triste, forse malgrado le stesse intenzioni della regista, e si fa specchio non certo distorto della filosofia truffaldina che funge da modello e incarna lo stile delle grandi società USA, dove il fatturato la fa da padrone, obnubilando arricchimenti selvaggi, conti gonfiati, statistiche falsate, bonus stratosferici eccetera. Poi il film ci racconta la progressiva irresistibile caduta della grande azienda e la rovina dello stuolo dei suoi impiegati, la disoccupazione – generalmente di corta durata, beati loro! – e l’eclisse dei magnati che se la cavano comunque.
Il tutto
narrato con mano impietosa ma leggera, senza sovraccaricare lo
spettatore di dati e considerazioni socio-filosofiche ma descrivendo una
realtà con spiritoso acume e celando dietro l’apologo uno sguardo
impietoso ma non troppo.
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