MARCELLA


Otto episodi esauriscono la prima stagione di una serie tv nuova di zecca, targata Netflix: una problematica donna poliziotta coinvolta in una serie di accadimenti pubblici e privati insieme: uccisioni misteriose con sacchetti di plastica, tradimenti in famiglia, relazioni sentimentali un po’ disinvolte, affari immobiliari piuttosto loschi, tre storie apparentemente slegate ma che finiscono per intersecarsi. Marcella, una detective tornata al lavoro dopo dieci anni di pausa, naviga fra questi casi che la coinvolgono anche personalmente, fra l’ossessione per un caso irrisolto e la lotta costante contro le ferite prodotte da una condizione psicologica disturbata. Uno strano poliziesco di marca inglese ma dal sapore un po’ scandinavo, mai meccanico e prevedibile - non per nulla ne è autore e regista lo svedese Hans Rosenfeldt, quello di “The bridge” - , interpreti dalla faccia “comune”, a cominciare da Marcella, più una casalinga inquieta che un’eroina. 
Panorami da moderna città alienante, ma dotati di una loro suggestione, algidi e insieme ostili, ritagliati in una Londra volutamente irriconoscibile e “diversa”, con un solo sconfinamento in quel di Dover, situazioni che s’intersecano in modo apparentemente casuale e finale assolutamente non catartico e risolutore, tanti sono gli spunti aperti e sbrogliati solo in parte, come per creare gli evidenti presupposti per una seconda stagione: è la lezione delle serie scandinave di successo, che traggono spesso spunto e sostanza, ma soprattutto impronta narrativa, dalla relativa “giallistica” svedese e danese. Su questa materia cala la tradizionale perizia tutta inglese nel mettere in piedi un racconto, attori irreprensibili e mai divi, a cominciare dalla protagonista Anna Friel, esatti come orologi e convincenti quanto autentici, ma insieme grigi, quasi intercambiabili. 
 Una curiosa positiva sorpresa. E la seconda serie?

RED LIGHTS



Diventata un’acida professoressa che vuole demolire le truffe e i truffatori nel campo del paranormale, Sigourney Weaver, batte il paese alla ricerca di falsi medium, veggenti fasulli e autentici ciarlatani. Un compito egregio per l’ex-eroina della saga di “Alien”. Gli è compagno d’avventure il giovane cervellone Cillian Murphy che si presta a farle da assistente e un po’ da lacchè. Tutto bene e alla grande, finchè il duo s’imbatte in un chiaroveggente cieco di grande fama che, al di là delle sue performances da baraccone, forse tanto fasullo non dovrebbe essere. Tanto è vero che nella dura contesa è la studiosa a lasciarci le penne. Dopo la sua morte c’è tutto un crescendo di conturbanti fenomeni che si fanno incandescenti quando la lotta si riduce a due, fra il l’orbo veggente – che forse potrebbe rivelarsi un abile impostore o forse no - e il giovane adepto, dotato di poteri paranormali a sua insaputa. 
Il film che era partito bene con la caccia alle truffe da parte dell’anzianotta Weaver perde rapidamente i colpi trasformandosi nell’ennesimo scontro parapsicologico con immancabili addentellati psicotici e decisi sconfinamenti nell’horror. Avventura strampalata, scritta e diretta nel 2012 dal regista catalano Rodrigo Cortes e coprodotta fra Catalogna e USA, che coinvolge due miti del cinema, Sigourney Weaver - ma, tutto sommato, se la cava dignitosamente - e Robert De Niro, che fa il sensitivo un po’ zombie, con gli occhi spenti grazie a due lenti e la stanca rassegnazione dell’attore che fu. 
Un film che non stupisce più di tanto e non coinvolge mai. Ma non manca chi ha definito “Red lights” un gran film che “stacca di netto la massa di thriller movie a buon mercato”. Bonta sua!

NASCOSTO NEL BUIO


Per la serie “recuperi” Netflix ci offre questo Robert De Niro d’annata (2005), strano pasticcio a metà fra il thriller e l’horror. De Niro è un angosciato papà che procura una nuova casa alla figlioletta che ha subito un forte trauma per la morte della madre suicidatasi. La casa è stata scelta a puntino da uno scenografo di film horror per disastrare ulteriormente la già fragile bambina: una villa enorme, misteriosa, gotica, al limite di un boscaglia con annessa grotta e laghetti, insomma una casa da incubo. E come prevedibile la bambina peggiora, sgranando i suoi occhi alla ricerca di un amico misterioso quanto inesistente che allevi le sue angosce. Ma i sintomi di morte e di sciagura non si arrestano: che la piccola sia ormai inguaribile, vittima di una psicosi che sta trasformandola in una creatura del male? E siamo a due terzi del film, occorre sbrigarsi. Ed ecco il cambio di rotta con relativa terribile “spiegazione”! Vi lasciamo volutamente nel buio: e se quell’ottimo papà non fosse quel bonaccione addormentato che abbiamo conosciuto finora? Il film è coinvolgente, la suspense non manca e la bimba – la piccola Dakota Fanning – non la dimenticheremo tanto facilmente. 
Robert De Niro fa il De Niro, puntuale, preciso come un orologio ma evidentemente superiore al ruolo assegnatogli, ormai evidentemente rassegnato a interpretare personaggi che non gli offrono granchè. Le altre figure sono tutte di contorto. Rimarchevole il cammeo di Amy Irving, ex-signora Spielberg. Per una sera d’estate un film così – già campione di incassi, specie negli Usa – può andare più che bene, è come un soffio di aria refrigerata, e non ci importa se abbia rubacchiato qua e là spunti, pretesti e immagini da almeno altri dieci film.

TRILOGIA MILLENNIUM



Fu un caso letterario: un giovane giallista svedese che raggiunge un successo planetario con una corposa trilogia di thriller molto singolari, pubblicati in parte postumi, perché Stieg Lasson muore all'improvviso nel 2004, poco dopo aver consegnato il manoscritto all'editore svedese, quando prometteva ancora molto o forse aveva già dato tutto. Tre opere corpose, con storie e personaggi che si accavallano in un viluppo di rimandi che tarda a districarsi. 
Ho amato quei tre libri e ho giudicato con sospetto l’inevitabile tentativo di tradurli in film. Poi mi sono fatto coraggio e mi sono visto “Uomini che odiano le donne” (2009). Il giudizio é sostanzialmente positivo, intanto ho visto fugato il pericolo di trovare la storia semplificata e acchitata da film made in Usa, con epici coloratissimi panorami e attori acqua e sapone di bellezza. No, i panorami sono quelli lividi e un po’ tristi di un paese di freddo e di neve e i volti dei personaggi non hanno nulla o molto poco di “cinematografico” nel senso usuale. La vicenda, con le necessarie semplificazioni nel passaggio da settecento pagine a due ore di cinema, conserva quel tono di lenta, metodica ma intrigante scoperta di una famiglia grande e corrotta, nel gioco di personaggi abbietti. Credo che non vedrò il remake made in Usa del 2011, con lo 007 Daniel Graig in missione speciale, anche se i più solerti recensori gli danno una stelletta in più.
Ho completato la visione del secondo e terzo film - tre film molto svedesi - tratti dalla trilogia “Millennium” di Stieg Larsson: “La ragazza che giocava con il fuoco” e “La regina dei castelli di carta”. Film molto svedesi non solo perché realizzati e interpretati in Svezia da attori svedesi, ma perché così intimamente si collegano al nuovo immaginario che cinema e televisione hanno costruito negli ultimi anni. 
Della Svezia e in generale di quel Nord Europa scandinavo, stretto nella morsa del gelo e popolato di belle ragazze bionde e disinibite che d’estate transumavano nei nostri mari, conoscevano, in termini cinematografici, molto poco: le opere allucinate e allucinanti di Carl Theodor Dreyer, il mito delle grandi attrici planate negli Usa, da Greta Garbo a Ingrid Bergman, e poi le numerose incursioni di Ingmar Bergman nei territori dell’inquietudine spirituale. Da giovanissimo amavo anche i rari film esportabili di Vilgot Sjoman, uno studioso di cinema e regista che poi conobbi a Venezia, film disinibiti e trasgressivi, che raccontavano temi sociali e personaggi tormentati in maniera provocatoria ed esplicita, ma quei film dovevo andare a vedermeli a Parigi, in un cinemetto della Rive Gauche. Poi c’era l’immagine, liberante e insieme triste che di quel paese, lontano da noi molto più dei chilometri che ci separano, avevano dato due italiani di cinema, Gian Luigi Polidoro e Albero Sordi: il paese della libertà sessuale, talmente disinibito da farti rimpiangere, a conti fatti, il nostro costume retrogrado e bacchettone. 
E adesso, da non molti anni, c’è un grande ritorno, specie in cinema e tv, serie che vengono puntualmente copiate dagli USA, libri “gialli” che vengono puntualmente tradotti diventando best-seller e i tre capolavori – possiamo definirli tali ? - dello sfortunatissimo Stieg, compendio di iniquità spionistiche, di speculazioni selvagge, di sfrenata violenza e libertà sessuale, di scatenato giornalismo d’inchiesta, di amori perversi con al centro il personaggio femminile più singolare della nuova narrativa: Lisbeth, hacker in abiti da irriducibile metallara, lesbica disinibita e complessatissima creatura che deve continuamente fare i conti con un terribile passato. I tre film raccontano a modo loro i tre romanzi ma ne conservano il succo e in gran parte gli umori, l’ambiente un po’ scostante di quelle città, i volti, lontani dall’immaginario svedese dei nostri anni giovanili, volti duri, sofferti, non belli, di giovani ma non giovanissimi. Netflix ce li porta in casa senza più bisogno di ricorrere al mio cinemetto parigino.

THE WARD



Difficile da collocare un regista come John Carpenter. Regista “di genere” o artista? Un po’ l’uno e l’altro, non ci sono - o non c’erano - strette suddivisioni di casta per generazione di registi USA degli Anni Cinquanta-Sessanta. Carpenter firmò alcune pellicole autoprodotte o quasi con pochi pochissimi soldi, che puntavano tutto sulla sua abilità di raccontare storie improbabili e di cui era autore, regista, montatore nonché musicista: i proto-horror di “Halloween” (1978) e “Fog” (1980), a cui seguirono il film post-atomico “1997: Fuga da New York” (1981) che fu il suo saggio d’ingresso nel grande cinema, quello con tanti soldi a disposizione. Seguirono altre pietre miliari del “genere”, come “Christine, la macchina infernale” (1983), ecc. 
Scomparso o quasi per qualche anno, è risorto nel 2010 con questo horror abbastanza singolare, dove si può respirare la tensione morbosa del “genere” ma tutt’altro che decifrata in modo sbrigativo, come nei film di serie B. Un ambiente – un ospedale psichiatrico? – che raccoglie ragazze con seri problemi comportamentali, una protagonista bella e indomita che tenta ripetutamente la fuga, il tutto risolto con la sorpresa di un finale a base di imprevedibili e arzigogolate spiegazioni psicanalitiche che ci guarderemo bene dal raccontare. In qualche modo un classico dell’horror con pochi ambienti – sostanzialmente uno – e pochi personaggi, in primo luogo la bionda e affascinante Amber Heard, abbastanza brava, che porta su di sé tutto il peso del racconto. Bravo Carpenter che sa come si costruisce un horror, senza bisogno di strafare ma senza rinunciare agli immancabili “effetti” che lo spettatore si attende, compresa l’immancabile apparizione orripilante come da copione. 
John Carpenter, che ha profondamente influenzato il cinema dei Tarantino, dei Rodriguez, dei Guillelmo Del Toro, è un esempio e un simbolo per il cinema indipendente e quella “di genere”, un cinema “povero”, minimalista nella fotografia e nell’illuminazione. Ma questo suo ultimo parto, pur se pregevole sotto molti aspetti, non sembra aver raggiunto il risultato sperato per il suo rilancio.

CREEP



Uno dei meriti non indifferenti del catalogo Netflix è quello di proporre, oltre a serie tv e film esemplari, dei materiali cinematografici che raramente avremmo la possibilità di vedere in altri circuiti, se non “fuori concorso” in qualche rassegna minore. “Creep” è uno di questi, tutti ripreso “in soggettiva” - si diceva una volta - cioè con la cinepresa guidata da un operatore che segue dal vivo una porzione di realtà registrandola senza lenocini formali, almeno apparenti. Ci narra, o meglio ci fa assistere a una giornata di ripresa commissionata ad un operatore da uno sconosciuto committente. E per la prima mezz’ora abbondante l’operatore ingaggiato esegue l’incarico di questo singolare individuo che, a un passo dalla morte per tumore, vuole fissare le ultime immagini patetiche e sorridenti di se stesso come messaggio al figlio nascituro che non potrà mai conoscere. Davanti all’occhio della telecamera il nostro Josif improvvisa e si confessa (una sconvolgente prova d’attore) e dell’operatore si fa amico, sino a confessare e fargli rivelare le più intime debolezze. E’ di gran lunga la cosa più bella del film questa giornata di riprese “improvvisate” fra la villetta di montagna e la campagna sassosa, la cascatella a forma di cuore, le corse e le rincorse. 
Ma a metà inoltrata il film cambia registro. Una telefonata di una donna rivela all’operatore che il suo gentile committente è in realtà un individuo pericoloso, ha simulato una vita e una storia che non esiste. Sempre sotto l’occhio impassibile della telecamera, via via piazzata e abbandonata in vari angoli dell’abitazione, Aaron l’operatore diventa lui stesso un personaggio della storia cercando di sottrarsi a questa oscura quanto incomprensibile minaccia, anzi persecuzione. La storia avrà un esito sconvolgente che non riveliamo ma che comunque fa rientrare il film nel novero degli horror o dei thriller che dir si voglia. Peccato, perché l’impostazione poteva promettere anche di meglio. 
Comunque è assodato che questa e simili esperienze, provvidenzialmente offerte da Netflix, dilatino lo stesso concetto di cinema che ci siamo fatti sino ad oggi. Oltre ai macroscopici colossal e ai centoni di effetti virtuali, il cinema – anche grazie all’evoluzione della tecnologia – può prometterci e offrirci altro.

L'ONDA



In un liceo tedesco neanche tanto male – scolaresca ben educata e abbastanza tranquilla – un insegnante, che è anche l’istruttore di palla-nuoto, riunisce un gruppo di ragazzi per una settimana a tema. Il tema è l’autocrazia. L’insegnante, molto motivato, vuole dimostrare alla sua classe come nascono le strutture sociali autoritarie e impegna i ragazzi in un lavoro in comune e inizia una sorta di lenta “educazione sentimentale” cominciando con lo spiegare cosa è un gruppo: la scelta democratica di un nome poi la creazione di un logo, l’adozione della camicia bianca come segno distintivo, un saluto caratteristico, in breve l’orgoglio di appartenenza a un gruppo ben individuato. Progressivamente questo senso di appartenenza si fa più forte e si trasforma nella volontà di distinguersi dagli altri, di consolidare la propria identità, magari stampigliando e seminando il proprio logo in ogni sito possibile. Dal senso esclusivo di appartenenza si sviluppa via via l’insofferenza verso gli altri, poi l’insofferenza diventa intolleranza, sino a sfociare in violenza. E il buon professore, che all’inizio della settimana di era dimostrato solo una volonteroso animatore, assume lentamente e inconsapevolmente, ad onta delle sue scarse volontà e capacità leaderistiche, le caratteristiche e la funzione del capo autoritario, del dittatore. Il tutto riassunto nel corso di una assurda settimana, anche se in realtà si tratta di un processo più lungo qui costretto in sette giorni a fini didascalici. 
Non c’è bisogno che spieghi l’evidente metafora, condotta attraverso il gioco sottile di un plagio che in buona parte è anche un “autoplagio”. Il gioco travolge chi lo ha condotto ma chi è involontariamente cade nella trappola, Un processo che si è svolge senza colpe e senza responsabilità. Il film è sapiente, punta soprattutto sui dialoghi e sulla parola, senza episodi cruenti, e per questo il gioco appare più perverso. In qualche senso potremmo definirlo il corrispettivo de “L’attimo fuggente”, con un docente che, sia pure a fin di bene, plagia i suoi allievi. Evidentemente le giovani generazioni tedesche vogliono riflettere ancora sul passato ma in modo diverso, penetrando nei meandri di quella lunga involontaria – incolpevole? - seduzione che ha visto la nascita del nazismo.
Mai declamatorio né banalmente retorico ma decisamente pedagogico, narrato in modo piano, senza lenocini formali, il film ha una storia piuttosto lunga e complessa: nasce da un gioco di ruolo condotto sperimentalmente in una scuola californiana nel 1967, poi diventa un romanzo a firma del tedesco Todd Strasser e da ultimo questo film del 2008 diretto da Dennis Gansel. Tutti convincenti gli attori, a cominciare da Jurgen Vogel, il professore-allenatore.

IL NASCONDIGLIO DEL DIAVOLO - THE CAVE



Preambolo inutile per presentarci un gruppo di cercatori di tesori che incappa in un vecchio monastero sui Carpazi, in Romania, vi penetra, si dà da fare, fa crollare un pavimento e scompare nell’abisso sottostante. Dopodiché si passa all’azione successiva che con il preambolo c’entra molto poco. Una squadra di ricercatori, messi sull’avviso da alcuni ritrovamenti, si assume il compito di esplorare la cavità sotterranea che sembra collegare la grotta al mare, si arma di bombole e accessori, esplora e rimane prigioniera nel vastissimo e articolato sistema di grotte sottomarine, le esplora in lungo e in largo per trovare una via d’uscita alternativa, s’insinua fra roccia e roccia, compie mirabolanti imprese subacquee offrendoci un’orgia di immagini azzurre. 
Ma la tensione non cresce e invece cresce la noia. E allora che fa questo film girato fra Romania e Messico? Rinuncia alla denominazione di thriller per assumere quella di horror. Nelle interminabili quanto monotone grotte sottomarine i nostri eroi incappano in una serie di strani mostri, un mix fra orridi vampiri e creature tipo “Alien”, che minacciano i nostri eroi a ogni pie’ sospinto. Crescono i pericoli, gli agguati di questi alieni sottomarini e la ricerca di una via d’uscita si fa spasmodica. Solo dopo due ore riusciremo a “riveder le stelle” - per dirla col Poeta – e leggere l’agognata parola fine. 
Insomma un pastiche fra tentazioni archeologiche presto deluse, spedizioni subacquee, agguati di mostri alieni. E tutto questo senza riuscire ad evitare una sostanziale noia. Gli attori, oltre a nuotare con bombole o senza, fanno quello che possono.

RIFLESSI DI PAURA



Sfuggito alle insidie terroristiche della fortunata serie “24”, Kiefer Sutherland incappa in un lavoro che sembrerebbe prospettarsi di tutto comodo: il guardiano notturno di un grande palazzo semicombusto che ospitava un elegante “grande magazzino” e ora popolato da manichini divenuti sagome terrificanti (dieci allo scenografo che ha creato quest’incubo di rara efficacia, realizzato a mestiere in Romania, utilizzando l’incompiuto palazzo dell’Accademia delle Scienze di Bucarest). 
Mai fidarsi dei lavori comodi, perché gli specchi di cui è gremito il mastodontico rudere, si trasformano per Kiefer in spaventosi tranelli, raddoppiando le presenze di chi vi si specchia e creando dei “doppioni” assassini. Non solo, ma dalla sede dell’emporio la minaccia si trasferisce, sempre per mezzo degli specchi, anche nell’abitazione della famigliola del guardiano minacciando moglie e figlioletti di morti atroce quanto sofisticate. L’incubo spunta all’improvviso e si affaccia lentamente durante le visite notturne del custode, per poi deflagrare in un’esplosione terrificante di risa, pianti, apparizioni, effetti ed effettacci. Non per nulla parliamo di horror, un horror che – come da copione - non ci risparmia facce orripilanti, corpi ustionati e tutto il prevedibile o imprevedibile armamentario. La storia s’ingarbuglia: una vecchietta, prelevata dal suo rifugio nascosto, dovrebbe metter fine alla ridda e invece ne provoca la deflagrazione finale. E il povero Kiefer sfugge in extremis alla distruzione definitiva con relativi crolli a catena. O forse non vi sfugge?
Cosa dire sul film? Un horror è un horror e c’è poco da prevedere o eccepire. In questo caso è anche un horror del 2008 copiato da un precedente sudcoreano del 2003, scusate se è poco. Sutherland figlio fa quello che può per guadagnarsi il cachet, e così la bella Paula Patton che interpreta sua moglie.

NO GOOD DEED



Idris Elba, il nerboruto attore afro-britannico, in temporanea vacanza dalla serie “Luther”, riempie con la sua presenza questo ennesimo film della “camera chiusa”. E cioè: un violento assassino, evaso dal cellulare che lo riparta in carcere dopo l’udienza per la concessione della libertà provvisoria, negatagli da un giudice avveduto si rifugia nottetempo nella villetta di una gentile signora con due figlioletti a carico – una bambina e un poppante -. La donna pecca d’ingenuità e lo accoglie credendolo un innocuo reduce da un incidente, ma cresce la tensione, il delinquente si libera da una donna invadente e ingombrante venuta a consolare l’amica in parziale crisi matrimoniale, e quando l’ospite si accorge del fatale errore commesso è ormai troppo tardi. E l’evaso impazza da bravo psicopatico. 
Due ore di tensione, ma di quella vera, di prima qualità, anche se lo spunto non è proprio originale. Vi sarà anche un risvolto finale che non denunciamo. Stereotipi un po’ abusati ma meccanismi collaudatissimi, la cui scrittura sembra ricalcare fedelmente i classici del genere, da “Panic Room” di David Fincher a “24 Ore” di Luis Madoki, nei quali la trama di una vendetta domestica si risolve nel prevedibile meccanismo di una trappola per topi. Come thriller niente da eccepire, la presenza di Idris è magnetica, la suspense ben dosata, Taraji P.Henson non sarà una gran bellezza ma si difende bene, e i due bimbi sballottati nei vari tentativi con i quali la donna tenta di sottrarsi al suo persecutore aggiungono – come facilmente prevedibile - tensione alla tensione.

THE PRESENCE

 

“Die praesenz”  rischia di essere il film più film o meno film che abbia visto da qualche anno a questa parte. Immaginate tre ragazzi che vivono per otto giorni in un castello che si ritiene abitato da misteriose presenze e che cercano di documentare la loro “orribile” vacanza con riprese “fai da te”, realizzate con una piccola telecamera adoperata a turno da uno dei tre, che di notte viene piazzata su un supporto perchè possa continuare a registrare quanto accada. Ma la telecamera fa quello che può, nei limiti del suo obbiettivo, senza alcun impiego di luci se non una modesta torcia, e le immagini peccano per scarsissima definizione, perdono tutto il croma quando tentano di leggere il buio, sono soggette a frequenti interferenze, scrosci, interruzioni e quant’altro. 
L’intento – lo si è detto – sarebbe quello di documentare “la presenza” di un’entità, di un fantasma, di un poltergeist, chiamatelo come volete. Ma finisce per documentare unicamente la loro paura, il crescere di una suggestione che diventa psicosi e che, come oggettive pezze d’appoggio, non ha che una serie di tonfi, di grida, di frastuoni crescenti o al massimo qualche porta che sbatte. E il timore diventa terrore, la paura diventa psicosi. La telecamera impazzisce anch’essa e documenta, ma solo a tratti, il volto della ragazza diventato la prova di un incubo. Alla fine una didascalia ci informerà che, assieme al contenuto della telecamera, nel castello è stato rinvenuto il cadavere di uno dei tre mentre la ragazza è stata ritrovata mentre girava impazzita nella brughiera. 
Sconcertanti e irritanti le immagini povere e disturbate della telecamera che ci inseguono e perseguitano per un’ora e ventidue, coinvolgendoci nel gioco. Assente ogni commento musicale e dialogo ridotto a monconi di battute. Un film o una burla? A suo modo un film. Ne è autore e regista Daniele Greco, che ha intrapreso un giro per la Germania, sponsorizzato da Facebook, per reperire i soldi necessari per l’ambiziosa operazione.

MAKKHI



Da che parte cominciare per recensire questo film indiano prodotto nel 2012 e campione d’incassi? Impresa ardua: film fantasy? Certo!, perché racconta una fiaba, presentata come tale anche nelle battute che ascoltiamo mentre sfilano i titoli di testa, con la bimba che prega suo padre di raccontarle una favola. E sarà la storia di un amore spezzato da un protervo magnate che uccide il rivale in amore. Ma lo spirito del defunto s’incarna in una mosca dispettosa che esigerà la sua vendetta perseguitando implacabile il suo assassino. Un film d’animazione?, anche, perchè la mosca che ne è la protagonista si mescola in modo singolare alle riprese con attori in carne ed ossa. Una commedia?, evidentemente, perchè il tono grottesco del film non raggiunge mai toni lugubri o drammatici. Un film d’effetti speciali?, senza dubbio, perché la tecnica digitale, ricca di risorse e di soluzioni strabilianti, ne è la maggiore responsabile. Un film targato Bollywood? Come negarlo? Per la scelta degli interpreti, per la collocazione, per le connotazioni scenografiche. Ma anche per quel modo singolare di narrare, dove canto e pantomima entrano a pieno diritto, specie in quella storia d’amore – prima che il giovane ucciso trasmigri nell’insetto – leggera e poetica, sorridente e vaporosa. Un kolossal? Come negarlo: Basta informarsi sulla vicenda complessa e pasticciata della sua lunga gestazione, l’impegno finanziario, le varie versioni e i sequel e così via. Ma soprattutto un film indiano per i suoi temi. La vendetta in primo luogo, ma anche la trasmigrazione, la metempsicosi, l’induismo, la presenza dei morti, i riti sciamanici eccetera. 
Un film godibile, senza le consuete amputazioni della parte canora e dei balletti operate dalle reti nostrane quando, solitamente in estate, si concedono il lusso di distribuirci i prodotti, più commestibili per noi, del ricco carniere targato Bollywood.


PAURA



Altro film di recupero (diretto da James Foley, 1996) che forse non era nemmeno necessario recuperare: il solito ragazzetto all’apparenza simpatico e a modino, che circuisce la solita ingenua sedicenne, depistando i genitori, la seduce e finalmente, con l’aiuto di amici degeneri e violenti come e quanto lui, pone in stato d’assedio la dimora della ragazza, votato a distruggere e uccidere. Di qui il prevedibile panico da luogo chiuso e indifendibile, e finalmente la paura promessa dal titolo. 
Troppo lunga la preparazione prima di giungere al sospirato clou e non sempre convincenti i protagonisti giovani, qui alle prime armi ma destinati a una fulgida carriera: lui è Mark Wahlberg per la prima e credo ultima volta cattivissimo, lei la giovane Reese Whiterspoon, brava ma ancora lontana dai suoi vertici comici e drammatici, il papà è William Petersen, un belloccio piuttosto incolore e fuori parte. 
Rivisto a dieci anni di distanza il tutto appare piuttosto scontatello.

TRAPPOLA SULLE MONTAGNE ROCCIOSE



Ideale sequel di “Under siege” (Trappola in alto mare) questo film del 1995, diretto da Geoff Murphy, è anche il secondo (e ultimo?) grande successo di Steven Seagal, e del precedente ripete la formula (un uomo solo, costretto in un luogo chiuso contro una banda di delinquenti). Stavolta il luogo è addirittura un treno che corre a gran velocità attraverso le Montagne Rocciose e la banda di terroristi che vi si è istallata è in grado di dirottare una spaventosa arma satellitare capace di sfruttare i fasci di particelle per provocare sismi artificiali, costruita dalla solita CIA pasticciona in dispregio delle disposizioni governative, per distruggere le roccaforti della civiltà, cioè per colpire Washington, al fine di provocare l'esplosione del reattore nucleare che i servizi segreti nascondono sotto il Pentagono. 
Azione dopo azione con la suspense a tirare il filo. Il vecchio riposante manicheismo stile western con i cattivi che sono veramente cattivi, senza crisi di coscienza e conflitti psicanalitici (anche se il supercattivo è uno psicopatico), e il buono che è un eroe senza macchia e senza paura, e qui il legnoso e massiccio Steven tenta di somigliare a Schwarzenegger, senza peraltro avere l’autoironia dell’ex culturista austriaco. I mitragliatori falciano vittime e non s’inceppano mai, gli scontri sono disperati e violenti ma fortunatamente non ancora ridotti a monotone e incolori competizioni da video-gioco, come avviene negli odierni film. Gli effetti sono numerosi ma non ancora digitali, quindi conservano una loro impossibile credibilità: "Inutile dire che il divertimento è inversamente proporzionale al tasso di credibilità delle azioni, che si susseguono a ritmo incalzante senza un attimo di respiro”. 
E’ bello e piacevole rivedere questi due “Under siege” che ci riportano a una stagione irrepetibile, forse ingiustamente snobbata.

DRAMAWORLD



Forse è stato proprio “Alice nello specchio” a dare il via nella narrativa alla sequenza dei personaggi fantastici che colloquiano con la propria immagine, entrano nel proprio sogno e intraprendono un dialogo impossibile con una realtà parallela. Poi sono arrivati tutti gli altri, sino a Woody Allen con “La rosa purpurea del Cairo”, dove un personaggio fittizio compie il percorso inverso balzando in sala dallo schermo e diventa ”vero”, e a Robert Zemeckis con “Chi ha incastrato Roger Rabbitt” dove attori in carne ed ossa penetrano nel reame di Cartoonia. 
Ora ci prova la tv con questa avventura strampalata, quasi uno scherzo, in cui un’adolescente bruttina e teledipendente, adibita a fare da sguattera nel bar di suo padre, viene risucchiata dal suo smartphone e trasportata nel dramma televisivo preferito. Ma non si limita a questo perché, appassionata com’è di serial, cerca di modificarne gli eventi, quantunque un altro personaggio secondario, il “facilitatore”, l’ammonisca a non interferire nella sceneggiatura se non secondo i canoni approvati dal genere televisivo. 
Ma il marchingegno messo in campo da “Dramaworld” non si esaurisce qui, perché se la ragazza è made in Usa, la fiction è made in Corea del Sud e sono coreani gli attori, anzi i divi, che la interpretano. Per cui il gioco si fa spericolato e puzza un poco di espediente coproduttivo - in cui c’è di mezzo anche la Cina - peraltro giustificato dalle piccole invenzioni con cui è via via seminato. 
Dieci episodi di venti minuti ciascuno, una situazione un po’ esilina (il “divo” è una specie di chef conteso fra aspirazioni gastronomiche e beghe familiari), un gioco un po’ criptico ma decisamente divertente fra lingua inglese e lingua coreana, una protagonista simpatica e un po’ buffa e molti camei con la partecipazione di noti attori asiatici.