MARY ANTONIETTE


Ho abbordato questo film con un po’ di timore: come avrebbe condito la giovane italo-americana, infanta del patriarca dei cinepadrini, la vicenda risaputissima della grande vittima del Terrore nonché uno dei personaggi più intriganti nell’epopea della Rivoluzione francese? Sua la sceneggiatura – dell’infanta voglio dire - ma appoggiata sul libro dell’ottima storica inglese Antonia Fraser. 
E invece niente paura: l’approdo della giovanissima austriaca fra le tassative regole e il rigorosissimo cerimoniale della corte più collaudata d’Europa viene narrata con dovizia di mezzi ma anche con inappuntabile suggestiva precisione. Belle le ambientazioni nelle quali Versailles la fa da padrone, altrettanto belli i costumi firmati da Milena Canonero, una delle poche, se non l’unica costumista, a saper abbinare correttezza storica, ingegno e un pizzico di fantasia. Sequenze di cerimoniale che talora ricordano - ma in una versione “alla grande” - la meticolosità dei cerimoniali eternati da Rossellini nel suo primo telefilm francese. Un mondo rutilante quanto oppressivo si muove attorno alla gentile fanciulla ben interpretata da Kirsten Dunst, reduce dalle avventure dell’Uomo Ragno. 
Ma proprio mentre ci dichiariamo disponibili e ricrederci sulle virtù registiche di Sofia, il film perde quota. Attorno alla gentile protagonista non prende vita nessun personaggio rimarcabile, forse eccezion fatta - ma in senso negativo - per la prestazione di Asia Argento nei panni della Du Barry, qui ridotta a una passeggiatrice da raccordo anulare. Le altre figurine, dal marito impotente alle dame di compagnia, al bello e insipido amante, svaniscono nel generico e anche la vita della stessa protagonista sfuma nel nulla. Quanto magniloquenti e sontuose sono le grandi scene della vita di palazzo, tanto spenti e semplicemente accennati sono gli spazi lasciati per la vicenda rivoluzionaria, volutamente tagliata fuori come un “dopo” troppo risaputo. Una scelta coraggiosa se anche la parte narrata non fosse, già per suo conto, scivolata nel generico.
E allora Dieci con lode ai doviziosi produttori - sponsorizzati da papà Coppola -, dieci con lode ai costumi di Milena Canonero premiati giustamente con un Oscar. Per il resto, Sofia rimandata a ottobre.

BOJACK HORSEMAN



Un cavallo chiamato uomo
Parafrasando e rovesciando il titolo di un famoso film, “Un uomo chiamato cavallo”, la serie cartoon, prodotta e distribuita da Netflix, giunta alla terza stagione con una quarta in lavorazione, chiosa le avventure hollywoodiane di un divo di sit-com in procinto di diventare un ex-divo e insieme lo strano mondo che gli gira intorno: manager tuttofare, produttori esecutivi che rubano idee, ex-divi che assumono ghost writer per eternare o reinventare le proprie squallide memorie, divi bambini che a distanza di anni diventano spenti ma intraprendenti adulti. E così via. I
l tutto raccontato da Will Arnett, collaudato attore canadese, coadiuvato da Aaron Paul, protagonista giovane della celeberrima “Breaking Bad”, e interpretato da “animaloidi” e “umanoidi” mischiati insieme con molta fantasia e una grafica furbescamente elementare.
Sulla scia delle più celebri e popolari serie d’animazione dedicate a una certa satira (da “I Simpson” a “I Griffin”) la serie Netflix situa stavolta le sue invenzioni in un universo hollywoodiano (ma una Hollywood tarpata dalla D) con allusioni talvolta un po’ da addetti ai lavori. Ha successo e si può capire il perché. 
A me, dopo l’iniziale sconcerto per questi protagonisti umano-animali, a cominciare dal protagonista Bojack Uomo-Cavallo, ha divertito e sto consumando voracemente la seconda stagione.

GLEASON


Entertainer di cabaret e inventore o quasi del genere televisivo della sit-com, Jackie Gleason da noi in Italia è scarsamente famoso e ancor più scarsamente conosciuto. L’unico ricordo è legato alla sua prestazione nel film “Lo spaccone” (1961) con Paul Newman, a cui fecero seguito una dozzina di altri film. In America no, Gleason è un mito, uno dei miti di media o cospicua grandezza creati dalla tv. I
nevitabile quindi che la tv gli tributasse il doveroso omaggio attraverso l’immancabile telebiografia o biopic che dir si voglia. “Gleason” (2002) ha un inizio non particolarmente originale che poi si ricongiunge al finale: una sorta di confessione dell’anziano entertainer dà il via alla ricognizione biografica. Come spesso avviene in questi casi, la parte più seducente è quella legata all’infanzia del personaggio, con quel bambino grassottello sballottato fra una madre responsabile quanto apprensiva e un padre irresponsabile quanto vittima dell’alcool, l’incontro con la seduzione del music-hall, la scoperta del teatro. Più pasticciato il film-tv nel raccontarne la successiva scalata anche perché le sue esternazioni da uomo di cabaret, nel doppiaggio nostrano, non danno conto dell’attrattiva esercitata sul suo pubblico all’epoca. Amore, vita di famiglia, cammino un po’ scriteriato fra conquiste e occasioni perdute.
Che dire di più? Che il protagonista mostra una straordinaria somiglianza con l’originale e se la cava egregiamente e che la biografia scorre senza difetti e senza entusiasmarci. Ma le rievocazioni nostrane di eventi e personaggi televisivi del recente passato o addirittura del presente riescono a fare assai di peggio.

SEQUESTRO


Un bambino ferito e smarrito che cammina solitario lungo una via di campagna viene raccolto da una macchina di passaggio e condotto in ospedale. Non parla, è completamente atono. Individuata la madre, un’avvocatessa di successo, questa rivela agli inquirenti che suo figlio è sordomuto dalla nascita. Ma chi ha tentato di rapirlo all’ingresso della sua scuola? Il bimbo aiuta a ricostruirne l’identikit e nell’archivio delle foto individua il suo rapitore, un pregiudicato che vive d’espedienti. Dunque tutto risolto? E invece no, perché l’avventura incomincia solo ora. 
Ma perchè raccontare oltre di questo film spagnolo che Netflix propone con i soli sottotitoli italiani? Il seguito è imprevedibile. Sulla mendace indicazione del bambino, inventata per nascondere uno squallido caso di bullismo, il “cattivo” della situazione monta una truffa estremamente elaborata di cui sino al finale non conosceremo la soluzione. Ma non vi aspettate un film dalle tensioni esasperate e dalle suggestioni spettacolari, un misto fra il thriller e il film d’azione all’americana!
Il film ha la sua forza proprio puntando su una narrazione distesa, con un interesse e una tensione che nascono dalle cose e non da artifici di sceneggiatura. Rigoroso e fluido nelle riprese, puntuale e attento nella scelta e nella resa degli interpreti, “Boy Missing” è la riprova di come si possa far cinema, e buon cinema, senza bisogno di ricorrere a soluzioni già preconfezionate in partenza. E senza ricorrere agli espedienti del thriller o alle stampelle del divismo, sia pure casereccio, come da noi in Italia. Film di genere? Buon cinema innanzi tutto!