SHIMMER LAKE


C’è un giochetto adottato da qualche sequenza comica o da qualche comunicato commerciale: come se la proiezione girasse alla rovescia le azioni vanno a ritroso, dalla conclusione alla partenza. Oren Uziel, regista-autore di questo singolare “Shimmer Lake” (2017) eleva il giochetto divertente alla dignità di formula narrativa.
Il film è diviso a blocchi temporali: si va dal più recente al più remoto. Sbigottiti da una porzione di storia di cui non capiamo il senso né individuiamo i personaggi, recuperiamo poi il momento procedente e così, per blocchi successivi, risaliamo sino al primo. E nel gioco assistiamo a una continua rivoluzione dei personaggi e dei “valori” che ci appaiono in continua trasformazione. 
Tutto bello, se il gioco non scoprisse un po’ la corda e creasse qualche motivo, forse involontario, di confusione. Navighiamo senza bussola, in un continuo rovesciamento delle responsabilità, sino a scoprire che il più “positivo” dei personaggi tanto positivo non è. Un espediente? O semplicemente un modo furbo per accreditare come singolare un film che, quanto a regia, costruzione della storia, attori e personaggi, non fa certo gridare al miracolo!

RED RIDING TRILOGY


  

Una serie antologica del 2009, tratta dai romanzi dello scrittore inglese David Peace. Mi correggo: non una serie ma una “trilogia”, definizione alquanto bislacca per tre film che hanno in comune i personaggi e la sigla Yorkshire che individua una regione a nord dell’Inghilterra particolarmente grigia e triste con atmosfere cupe e talora inquietanti e, a quanto pare, caratterizzata dall’estrema corruzione in seno alle forze di polizia. Tre film, personaggi che si rimandano dal 1974 al 1983, tre registi diversi e stili quasi opposti. 
Si comincia con la sofisticatissima storia del giovane giornalista che ingenuamente cerca di “far luce” quando tutti i poteri, polizieschi ed economici, vogliono che sia fatto buio. Naturalmente non può che finir male per il giornalista. 
A far luce ci riprova, nel secondo film, un Commissario spedito in piena giungla: stavolta lo stile è meno pretenzioso e la vicenda non è dissimile da quella di un qualunque thriller. Stessa fine del giornalista per il Commissario onesto e sprovveduto. 
Il terzo film ci spiazza veramente: è una sorta di versione riveduta e corretta dei primi due, con rimandi alle storie e ai personaggi. Stessa negativa conclusione. 
A parte le raffinatezze formali, qua e là più o meno accentuate, si tratta in fondo, riguardo alle atmosfere deprimenti e ai “finali” decisamente negativi, di tre “noir made in UK”. Un’esperienza singolare: tre romanzi trascritti con gli stessi interpreti ma con stili e declinazioni molto differenti fra loro. Al primo la palma di una ricerca di cinema più raffinata o se si vuole sofisticata.

DOVE ERAVAMO RIMASTI


Titolo italiano cretino per un film che certo cretino non è, firmato da Jonathan Demme e con una Merryl Streep visibilmente entusiasta di cantare di nuovo.
Commenti inopportuni a parte veniamo al film: una madre “degenere”, evidentemente rovinata dal Sessantotto, ha abbandonato da anni la prole per inseguire il suo sogno – forse un po’ tardivo – di fare la cantante rock. In uno di quel disgraziati connubi fra l’osteria e il pub della provincia americana la donna delizia il suo sparuto pubblico di disincantati spettatori assieme a un compagno di chitarra che è - o diventerà - anche un compagno di vita. Un tentativo, tardivo quanto fallito, di riconquistare i figli e di capirne l’attuale situazione. La presa di coscienza della realtà, poi la finale riconquista della figliolanza nella reciproca accettazione delle diversità sviluppatesi dagli anni del distacco. 
Il film, inframmezzato dalle esibizioni della Streep, è delicato e ricco di notazioni psicologicamente acute; Merryl – manco a dirlo – è straordinaria e ritrova, dopo qualche evasione discutibile in anni recenti – il suo spessore di grande insostituibile attrice.