Forse è stato proprio “Alice nello specchio” a dare il via nella narrativa alla sequenza dei personaggi fantastici che colloquiano con la propria immagine, entrano nel proprio sogno e intraprendono un dialogo impossibile con una realtà parallela. Poi sono arrivati tutti gli altri, sino a Woody Allen con “La rosa purpurea del Cairo”, dove un personaggio fittizio compie il percorso inverso balzando in sala dallo schermo e diventa ”vero”, e a Robert Zemeckis con “Chi ha incastrato Roger Rabbitt” dove attori in carne ed ossa penetrano nel reame di Cartoonia.
Ora ci prova la tv con questa avventura
strampalata, quasi uno scherzo, in cui un’adolescente bruttina e
teledipendente, adibita a fare da sguattera nel bar di suo padre, viene
risucchiata dal suo smartphone e trasportata nel dramma televisivo
preferito. Ma non si limita a questo perché, appassionata com’è di
serial, cerca di modificarne gli eventi, quantunque un altro personaggio
secondario, il “facilitatore”, l’ammonisca a non interferire nella
sceneggiatura se non secondo i canoni approvati dal genere televisivo.
Ma il marchingegno messo in campo da “Dramaworld” non si esaurisce qui,
perché se la ragazza è made in Usa, la fiction è made in Corea del Sud e
sono coreani gli attori, anzi i divi, che la interpretano. Per cui il
gioco si fa spericolato e puzza un poco di espediente coproduttivo - in
cui c’è di mezzo anche la Cina - peraltro giustificato dalle piccole
invenzioni con cui è via via seminato.
Dieci episodi di venti minuti
ciascuno, una situazione un po’ esilina (il “divo” è una specie di chef
conteso fra aspirazioni gastronomiche e beghe familiari), un gioco un
po’ criptico ma decisamente divertente fra lingua inglese e lingua
coreana, una protagonista simpatica e un po’ buffa e molti camei con la
partecipazione di noti attori asiatici.
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