BITTERSWEET LIFE

 

Evocare Shakespeare o la tragedia greca per questo dramma cinematografico made in Corea del Sud, certo quanto di più lontano ci sia da un semplice film d’azione anche se il potenziale bellico che vi viene impiegato è rilevante. Sarebbe piaciuta a Sergio Leone l’avventura solitaria di questo vendicatore, ma qui narrata senza il menomo ricorso all’humour che caratterizzava l’inventore del “western italiano”.
Ma andiamo per ordine, Sun-woo, manager di un lussuoso albergo, è il braccio destro del boss malavitoso Kang, un giovane scherano fedelissimo agli ordini di un bieco e brutale magnate che si fida così tanto di lui da imporgli un incarico di fiducia: sorvegliare la sua giovanissima amante, sospettata di tradirlo, durante i tre giorni della sua assenza. Tizio prende contatto con la fanciulla, che è una suonatrice di violoncello, esegue il suo compito di sorveglianza, ne scopre un amoretto, informa il principale e viene dal lui incaricato di fare giustizia. Ma non la fa, trasgredendo così all'ordine del suo boss e per questa disobbedienza dovrà pagare con la vita. Per la sua imperdonabile disobbedienza i “bravi” del capo lo riducono in fin di vita e lo seppelliscono vivo. Dalla bara di fango Tizio risusciterà trasformandosi in un angelo vendicatore. 
Di qui la carneficina, impartita con tecniche aggiornatissime, a base di pistole e mitragliatori, ma con spirito antico, come un assurdo rito purificatorio. La violenta carneficina a base di mitra, distruzioni e morti a catena assume i contorni del rito alla samurai e mi ricorda la sacralità della terribile vendetta impartita dal patriarca nella “Fontana della vergine” di Ingmar Bergman. Questa aura antica, questo eccidio è appunto da tragedia greca. 
Un film singolare, diretto dal sudcoreano Kim Jee-woon e arricchito dalla prestazione del giovane Lee Bieyong-Heon, girato con un cura quasi eccessiva, scandito fra moderne architetture ortogonali, ma legato e un costume barbaro che è di difficile comprensione, un po’ cedevole di fronte a qualche belluria non strettamente necessaria o forse un po’ estranea al modo di sentire del pubblico nostrano, come il finale un po’ a matrioska, “A Bittersweet Life” è un inno alla magnificenza estetica del cinema di Kim Jee-woon.

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