HUMANDROID



Lunga la storia della lenta conquista di un’intelligenza autonoma, unita a una coscienza morale, da parte di individui meccanici creati dall’uomo - calcolatori, robot, androidi, automi ecc. - in parole povere: intelligenze artificiali contro intelligenze umane, macchina contro uomo. Più che di una lotta si tratta di un lento avvicinamento fra creatori e creature, i primi sempre più stolidi, i secondi sempre più avvertiti e irrequieti. Possiamo far partire la vicenda cinematografica di questo dissidio perlomeno da Stanley Kubrich e con la sua “2001. Odissea nello spazio”. Ma poi ci sono i “Robocop” – dove peraltro il rapporto uomo-automa è rovesciato -, e poi quel trepido film che è “AI. Intelligenza artificiale” di Spielberg, e chi più ne ha più ne metta. Perché non arretrare addirittura sino alla preistoria, con Meliès o con il Fritz Lang di “Metropolis”? 
“Humandroid” (2015) ci proietta nel solito mondo futuribile – stavolta situato a Johannesburg - dove un coraggioso quanto improvvido giovane inventore mette a punto la scheda per dare sentimenti e autocoscienza a un robot, residuato di un esercito di robot poliziotti creati per combattere l'alto tasso di criminalità della città. Il tutto in un mondo postapocalittico dove convivono brillanti tecnocrati e uomini retrocessi allo stadio di trogloditi. La storia un po’ pasticciata, come del resto si conviene a questo tipo di problematiche, procede talvolta speditamente talvolta a singhiozzo e Chappie, il robot fornito di apposita scheda che gli permette di possedere un'intelligenza artificiale senziente, compie in fretta la sua educazione sentimentale dando agli umani varie lezioni di umanità. 
Un po’ troppo fragoroso e con un eccesso di battaglie furibonde a base di sparatorie, il film conta non tanto sulla presenza centellinata e superflua di divi come Hugh Jackman o Sigourney Weaver, quanto su quella del robot Chappie – o di chi lo interpreta coadiuvato dal computer – nonché dei due rapper stralunati Yolandi e Ninja.

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