SHIMMER LAKE


C’è un giochetto adottato da qualche sequenza comica o da qualche comunicato commerciale: come se la proiezione girasse alla rovescia le azioni vanno a ritroso, dalla conclusione alla partenza. Oren Uziel, regista-autore di questo singolare “Shimmer Lake” (2017) eleva il giochetto divertente alla dignità di formula narrativa.
Il film è diviso a blocchi temporali: si va dal più recente al più remoto. Sbigottiti da una porzione di storia di cui non capiamo il senso né individuiamo i personaggi, recuperiamo poi il momento procedente e così, per blocchi successivi, risaliamo sino al primo. E nel gioco assistiamo a una continua rivoluzione dei personaggi e dei “valori” che ci appaiono in continua trasformazione. 
Tutto bello, se il gioco non scoprisse un po’ la corda e creasse qualche motivo, forse involontario, di confusione. Navighiamo senza bussola, in un continuo rovesciamento delle responsabilità, sino a scoprire che il più “positivo” dei personaggi tanto positivo non è. Un espediente? O semplicemente un modo furbo per accreditare come singolare un film che, quanto a regia, costruzione della storia, attori e personaggi, non fa certo gridare al miracolo!

RED RIDING TRILOGY


  

Una serie antologica del 2009, tratta dai romanzi dello scrittore inglese David Peace. Mi correggo: non una serie ma una “trilogia”, definizione alquanto bislacca per tre film che hanno in comune i personaggi e la sigla Yorkshire che individua una regione a nord dell’Inghilterra particolarmente grigia e triste con atmosfere cupe e talora inquietanti e, a quanto pare, caratterizzata dall’estrema corruzione in seno alle forze di polizia. Tre film, personaggi che si rimandano dal 1974 al 1983, tre registi diversi e stili quasi opposti. 
Si comincia con la sofisticatissima storia del giovane giornalista che ingenuamente cerca di “far luce” quando tutti i poteri, polizieschi ed economici, vogliono che sia fatto buio. Naturalmente non può che finir male per il giornalista. 
A far luce ci riprova, nel secondo film, un Commissario spedito in piena giungla: stavolta lo stile è meno pretenzioso e la vicenda non è dissimile da quella di un qualunque thriller. Stessa fine del giornalista per il Commissario onesto e sprovveduto. 
Il terzo film ci spiazza veramente: è una sorta di versione riveduta e corretta dei primi due, con rimandi alle storie e ai personaggi. Stessa negativa conclusione. 
A parte le raffinatezze formali, qua e là più o meno accentuate, si tratta in fondo, riguardo alle atmosfere deprimenti e ai “finali” decisamente negativi, di tre “noir made in UK”. Un’esperienza singolare: tre romanzi trascritti con gli stessi interpreti ma con stili e declinazioni molto differenti fra loro. Al primo la palma di una ricerca di cinema più raffinata o se si vuole sofisticata.

DOVE ERAVAMO RIMASTI


Titolo italiano cretino per un film che certo cretino non è, firmato da Jonathan Demme e con una Merryl Streep visibilmente entusiasta di cantare di nuovo.
Commenti inopportuni a parte veniamo al film: una madre “degenere”, evidentemente rovinata dal Sessantotto, ha abbandonato da anni la prole per inseguire il suo sogno – forse un po’ tardivo – di fare la cantante rock. In uno di quel disgraziati connubi fra l’osteria e il pub della provincia americana la donna delizia il suo sparuto pubblico di disincantati spettatori assieme a un compagno di chitarra che è - o diventerà - anche un compagno di vita. Un tentativo, tardivo quanto fallito, di riconquistare i figli e di capirne l’attuale situazione. La presa di coscienza della realtà, poi la finale riconquista della figliolanza nella reciproca accettazione delle diversità sviluppatesi dagli anni del distacco. 
Il film, inframmezzato dalle esibizioni della Streep, è delicato e ricco di notazioni psicologicamente acute; Merryl – manco a dirlo – è straordinaria e ritrova, dopo qualche evasione discutibile in anni recenti – il suo spessore di grande insostituibile attrice.

BLUE JASMINE



Autore singolare, Woody Allen, anche dopo essersi lasciato alle spalle i Settanta ed ora gli Ottanta continua a girare in media un film all’anno ma ne azzecca uno ogni tre. Non gli si può negare un raro talento nell’abbozzare storie “aperte” e nello scrivere brillanti dialoghi. “Blue Jasmine” (2013) appartiene alla categorie dei film azzeccati. 
La storia alterna i due tempi della vita della protagonista, quello in cui è la ricca consorte di un finanziere imbroglione e quello in cui in totale povertà deve farsi ospitare dalla sorella adottiva. Due tempi che sono anche due mondi: quello dell’alta borghesia spendereccia e quello proletario. Nel tentativo di salvarsi dalla depressione post-sinistro (fallimento e suicidio del consorte) nonchè di riconquistare il livello sociale in cui è precedentemente vissuta, la protagonista cerca di trovare una soluzione per sfuggire alla propria angoscia, o meglio alla sua psicosi. Tentativo destinato al fallimento. 
Il film racconta questa doppia storia con l’estro dell’Allen dei giorni buoni, puntando soprattutto sulla validità degli interpreti, fra cui prende il volo Cate Blanchett col suo straordinario vibratile disperato personaggio giustamente premiato con l’Oscar. Non dimenticheremo questa donna fragile e dignitosa, nevrotica ma aperta alla speranza. Un ritratto così vero e impietoso da urtare la nostra placida sensibilità di spettatori.

PREGA FINCHE' PIOVA



In regime di siccità consoliamoci con questo film che parla di siccità ma non solo, perché la siccità che rende interi lembi della California piatte distese di grigio è dovuta a qualcuno che impedisce, con false motivazioni ecologiste, l’arrivo di canalizzazioni che in parte almeno risolverebbero il problema. Chi scopre tutto è una giovane giornalista che, dopo una lunga assenza, si riconcilia con la sua terra a cui ha fatto momentaneo ritorno per la morte violenta del proprio genitore. 
Tutto abbastanza prevedibile, compreso il parziale lieto fine e la riappropriazione delle terre riarse restituite alla naturale missione agricola. La visione di queste brulle sconfinate pianure, aride quasi spente, è il lato più suggestivo del film del quale è difficile dir male come pure farne gli elogi. Annabelle Stephenson, la protagonista, sgrana i suoi occhioni un po’ ipertiroidei alla ricerca di una carica drammatica raggiunta a suon di lacrime.

THE SAINT


Cadono i miti come cadono le foglie in questo incipiente autunno. Crollato in buona parte il mito dell’irresistibile spione 007, un po’ svenduti quelli di Batman e Spiderman è la volta del Santo, il ladro gentiluomo un po’ scopiazzato da Arsenio Lupin con in più un fondo umanitario e caritatevole alla Robin Hood. E’ il personaggio creato da Leslie Charteris nel 1928, che fece la fortuna di Roger Moore e forse fu per lui il trampolino di lancio verso il più valido e sicuramente il più simpatico dei James Bond. 
C’era già stato nel 1997 un film poco riuscito con Val Kilmer, altrettanto poco riuscito il nuovo remake, pilota di una progettata serie tv, anche se tenta di riannodarsi alle origini del personaggio mostrandone, attraverso contenuti flashback, la nascita e “formazione” (chiamiamola così). 
Due gravi difetti fra i tanti: primo, l’inane tentativo di riassumere la vicenda di Simon Templar, diluita all’origine in molti romanzi e altrettanti telefilm, in un unico film, quasi uno spasmodico e inutile riassunto. Secondo: a parte un rapido cenno alle finalità altruistiche delle sue imprese, il tutto viene ricondotto alle dimensioni di un normale e scontato film d’azione, abbastanza confuso e ripetitivo. Quanto al carisma del protagonista e degli altri personaggi, lasciamo perdere. 
Unico effimero d’interesse il rapidissimo cammeo del vecchio Roger Moore, ormai appannato ma non privo di quella sua sottile carica auto-ironica.

OZARK



Le serie tv – sia straniere che nostrane - amano le location un po’ particolari, un’isola, una comunità di provincia, una terra isolata, i margini di una scogliera, i ponti e così via. Non è tanto – o non solo – per comodità ma anche per disporre di una situazione logistica d’effetto, meno generica di vie di città ormai tutte analoghe perchè omologate.
Da Chicago, Marty e famiglia si spostano sulle rive di un lago che dà il titolo alla serie, Ozark, in un villaggio vacanze in Missouri. Là Marty ha un compito particolare: riuscire a “ripulire” una grossa somma di denari di cui è debitore a un grosso boss – tanto per cambiare – del cartelli della droga messicani. E Marty ci riuscirà – o forse no - al termine di dieci puntate della prima serie, mettendo in campo tutti gli espedienti di un provetto finanziere e collocatore di denari. Il paese – che tanto pacifico non è – ne riuscirà sconvolto. 
La serie – stando a questa prima stagione – non è affatto male, forse qualche volta un po’ difficile da capire nei suoi risvolti finanziari, ma sufficientemente ricca di personaggi e situazioni. Da notare la presenza di una Laura Linney un po’ ammaccata. E’ in arrivo la seconda Stagione in 10 episodi.

VITE SOSPESE



Ai miei tempi i film erano delle meteore, occorreva coglierli al loro passaggio, nel giro di pochi mesi, e poi sparivano nei meandri della memoria per chi aveva avuto la fortuna di acchiapparli in un locale di prima seconda o terza visione, quelli che a Roma si chiamano i “pidocchietti”. Oggi no, le televisioni e i DVD ci permettono di compiere ricognizioni dirette e a distanza di anni. 
Venticinque dalla comparsa di un film come “Vite sospese”, un singolare film che potremmo definire di spionaggio, attorno a una pagina di storia. Il nazismo e gli ebrei. Curioso film? Direi un filmone, con ricostruzioni attente quanto grandiose, in anni in cui le scenografie e il numero delle comparse non potevano essere adulterati dal computer. Con un gruppo di attori di prim’ordine, da Melanie Griffith, un’attrice troppo presto scomparsa dalla vita artistica attiva, a Michael Douglas, e c’è persino John Gielgud, il mito shakespeariono, in una parte minore. E pensare che nel 1992 “Vite sospese” si accaparrò tutti i “Razzie Awards” come peggior film dell’anno. 
Si fanno più film di questo tipo? Sceneggiature ben calibrate, storie avvincenti, contesto storico attentamente ricostruito, attenta regia e anche un pizzico di umorismo con cui il personaggio principale modula il suo personaggio. Forse sì. Ma guarda un po’, in questo momento non me ne viene in mente nemmeno uno!

REGINA DEL SUD



Intorno agli anni Quaranta-Cinquanta gli americani stabilirono le regole di un nuovo genere cinematografico, il film di gangster o poliziesco, che cantava le gesta di gang spuntate come funghi attorno all’equivoco traffico di alcool negli anni ruggenti del proibizionismo: personaggi un po’ double-face, disegnati nelle loro dimensioni eroiche, anche se si trattava di esseri spregevoli destinati a una brutta fine in obbedienza al Codice Hays, e poi le facce patibolari dei gregari, la “pupa” del gangster, e quel clima torbido di una nemesi incombente che tingeva di tristezza ogni avventura. Somigliava parzialmente al noir francese ma ne differiva sotto diversi aspetti.
Da una decina di anni o forse meno il genere si è aggiornato anzi possiamo dire che ne sia sorto uno nuovo. Loschi trafficanti sudamericani, cartelli in luogo di gang, e il traffico della droga in luogo di quello dell’alcool, droghe più o meno diluite e adulterate, come negli anni passati si usava fare col whisky, e poi accoliti dalle facce patibolari scelti prevalentemente fra ispanici, e pupe assortite per il capo. Ma pupe generiche con meno personalità, spesso prostitute schiavizzate, senza i vecchi rituali del dono di gioielli e pelliccette. Il genere – pronube Netflix – batte in violenza il precedente, dove la crudeltà era, tutto sommato, descritta in toni un po’ asettici, solo sventagliate di mitra e colpi di pistola. Qui la violenza deborda, si trasforma in sadismo e i morti si sprecano. 
Su questo schema, mescolato in un pastiche fra finzione e verità, sono state costruite le serie “Narcos” sulla vita e le avventure di Pablo Escobar, ed ora è la volta – con una maggior commistione fra realismo e finzione - de “La regina del Sud”, di cui abbiamo visto i tredici affascinanti episodi della prima stagione, tratto dal quattordicesimo romanzo dello spagnolo Arturo Pérez-Reverte. Teresa Mendoza, destinata a divenire la Regina del titolo, la conosciamo ancora alle prime armi della sua carriera di donna rotta a tutto, d’astuzia volpina, di eccezionale forza d’animo, dolce e spietata, decisa a salire la vetta in un traffico internazionale di droga seminato di morti e assassini. Il racconto è severo, crudo ma non compiaciuto. 
Gli interpreti tutti attendibili, i toni quelli di un racconto realistico che rivela aspetti sconosciuti di un terribile commercio. E al centro lei, Alice Braga, che gestisce il suo personaggio con bravura e intensa verità. Accanto al lei un altro personaggio femminile potente, Camila (Veronica Falcon) in lotta contro il marito per il controllo del cartello. E i comprimari, i secondi personaggi e le seconde storie: un racconto disteso e implacabile per chi ami i sapori forti, ma ben amministrati, senza i sapori fasulli e sofisticati della nostrana nouvelle cousine.

AFFARE FATTO



Ricetta per fare un commedia cinematografica, meglio se americana. Primo: scegliere un attore accreditato per il genere, Vince Vaughn va benissimo. Secondo: abbinargli un paio di figuri a fargli da soci, uno anziano e uno giovane, quello anziano scafato e rompicoglioni, quello giovane immaturo e coglione. Fatto. Che il soggetto tratti della rivalità in affari fra una bionda manager, con una grossa società alle spalle, e i tre “sola” senza arte né parte che ci provano. 
Difficoltà ad ogni passo, ben seminate fra la nativa America e la Germania dell’industria, da Amburgo sino alla capitale Berlino, sentina di affari ma anche di altre delizie, fra cui il sesso. Qualche sequenza di nudo non guasta, un bagno turco con una serie di tette al vento e un vasto assortimento di amplessi, sia normali che trasgressivi. C’è poi la trovata del sexy-party per appendici maschili al vento. Cosa pretendete di più da un creatore di commedie? 
Sarà pure una ricetta perfetta ma il risultato e appena mangiabile e francamente indigeribile. Ah, le belle commedie di una volta, con quei bisticci amorosi in punta di penna fra attori e attrici che ci sapevano fare!...

BIG GAME - CACCIA AL PRESIDENTE



La Finlandia, ma chi la conosce? Certamente non io che nei miei numerosi viaggi non mi sono mai spinto a Nord più su di Aarhus in Danimarca. Eppure esiste ed è – stando a questo film – terra di montagne e di fieri cacciatori. 
Mentre appunto un babbo cacciatore presiede all’iniziazione di suo figlio tredicenne, un po’ imbranatello secondo lui, accade là vicino qualcosa di terribile: un attentato al Presidente degli USA mentre è in volo per raggiungere uno dei soliti incontri al vertice in quel di Helsinki. Conclusione: il mitico aereo presidenziale collassa e il presidente viene sparato lontano tramite capsula di salvataggio. E ti va a cadere proprio dove il piccolo apprendista cacciatore sta esercitandosi. In realtà non si è trattato di un incidente ma di un vero e proprio sabotaggio per eliminare il Presidente messo in atto da una frazione armata. Agguati, fughe, peripezie assortite e il ragazzino riuscirà a mettere in salvo il Leader Usa guadagnandosi i galloni di supercoraggioso. 
Il riassunto l’ho buttato giù un po’ allegretto ma non tragga in inganno il lettore: si tratta di un film godibilissimo e ben architettato, con un ragazzino dalla faccia un po’ esquimese e un Presidente che è il tuttofare Samuel Jackson, stavolta nei panni di un buono, anche se imbelle. Prodotto dalla Finlandia il film (2014) riesce in modo egregio anche ad adempiere alla sua funzione promozionale e in più è divertente, con quel tanto di tensione necessaria a farci sopportare il caldo di un estate un po’ eccessiva.

LA NOTTE NON ASPETTA



L’assassino è il maggiordomo: era la consueta prevedibile conclusione dei vecchi onesti “gialli” inglesi sulla scia di Agatha Christie, una consolatoria soddisfazione per la nostra intelligenza di lettori e detective in erba. Poi anche i “gialli” si sono complicati, a cominciare dai classici americani, hard boiler e non, e il bene e il male hanno cominciato a confondersi. Il gioco si è fatto più complesso ma la soluzione sempre quella: il più inoffensivo e insospettabile dei buoni era il cattivo. Il sano manicheismo del giallo stile inglese cedeva il passo a un sano scetticismo prendendo le distanze dei buoni troppo buoni. Ma l’attuale deriva del thriller è ben lontana da ambedue gli assunti. Bene e male sono ormai indivisibili, sia i difensori della giustizia che i delinquenti dichiarati condividono lo stesso culto della violenza, che può giungere sino alla sopraffazione sadica. 
Questa lunga premessa per parlare di un thriller non tanto vecchiotto (2008) dove un Keanu Reeves, poliziotto senza scrupoli che si è autonominato giustiziere, usa gli stessi metodi dei suoi avversari e dove alla fin fine, quel suo capo pacioccone, sempre pronto a sostenerlo e a prenderne le difese, - interpretato da Forest Whitaker, bravissimo come sempre - si rivelerà il più spietato e disonesto della partita. Insomma siamo intrisi di violenza e la spregiudicatezza – che è rinuncia dei cosiddetti valori – regna sovrana. Una visione pessimistica della realtà, o magari soltanto realistica.

QUARANTENA



Remake di un film spagnolo dell’anno prima, “Quarantine” (2008) declina all’ennesima potenza il criterio della cinepresa protagonista. Ci sono due principali ruoli a cui può assolvere una cinepresa: essere testimone, cioè assumere una posizione “al di fuori” della situazione che sta riprendendo, o essere “personaggio”, cioè prendere parte all’azione e porsi al suo interno. 
In “Quarantine” la telecamera in questione, amministrata da una pimpante telecronista, è impegnata in un banale servizio televisivo su una giornata accanto ai Vigili del fuoco, ma finirà impigliata nel contesto in cui sta muovendosi divenendo fatalmente partecipe di quanto sta accadendo, anzi ne è travolta, insieme alla cronista che dovrebbe guidarne l’azione: registra quanto accade in modo provvisorio, improvvisato, sgrammaticato, per seguire lo svolgersi drammatico degli avvenimenti, ne coinvolta. L’azione si fa vieppiù drammatica: la squadra dei Vigili è stata convocata in un certo stabile per controllare le esuberanze aggressive di una vecchia coinquilina, ma assisterà allo scatenarsi di un epidemia di rabbia che contagia via via tutti i condomini. Telecamera e giovane cronista sono entrambe prigioniere, fra un popolo di disperati progressivamente contagiati dalla malattia che si trasforma in epidemia contagiosa per cui viene impedito a tutti – telecamera compresa – di abbandonare lo stabile. Dopo un frivolo inizio “à la manière de” l’azione precipita, il dramma assume toni drammatici, disumani. E la telecamera impazzisce, unica testimone di un dramma nell’attimo stesso in cui si sta svolgendo. 
 Un film singolare, potente, inconsueto, direi un esperimento unico e forse difficilmente ripetibile: La “camera a mano”, in costante movimento, alla ricerca della messa a fuoco, con rapidi e sommari spostamenti d’attenzione, testimonia tutto senza soluzione di continuità. L’assunto del regista è di essere estremamente realistico nella forma come nei contenuti, come in un rigoroso quanto impossibile documento di cinema-verité. Resta l’equivoco di una telecamera protagonista che deve sempre e comunque muoversi e aggiornarsi, anche quando l’azione potrebbe non richiederlo e che quindi talvolta esaspera un po’ gratuitamente i propri movimenti. 
Fra gli interpreti – tutti veri più che bravissimi – domina la brava Jennifer Carpenter che avevano conosciuto come colonna portante delle serie Dexter.

MARY ANTONIETTE


Ho abbordato questo film con un po’ di timore: come avrebbe condito la giovane italo-americana, infanta del patriarca dei cinepadrini, la vicenda risaputissima della grande vittima del Terrore nonché uno dei personaggi più intriganti nell’epopea della Rivoluzione francese? Sua la sceneggiatura – dell’infanta voglio dire - ma appoggiata sul libro dell’ottima storica inglese Antonia Fraser. 
E invece niente paura: l’approdo della giovanissima austriaca fra le tassative regole e il rigorosissimo cerimoniale della corte più collaudata d’Europa viene narrata con dovizia di mezzi ma anche con inappuntabile suggestiva precisione. Belle le ambientazioni nelle quali Versailles la fa da padrone, altrettanto belli i costumi firmati da Milena Canonero, una delle poche, se non l’unica costumista, a saper abbinare correttezza storica, ingegno e un pizzico di fantasia. Sequenze di cerimoniale che talora ricordano - ma in una versione “alla grande” - la meticolosità dei cerimoniali eternati da Rossellini nel suo primo telefilm francese. Un mondo rutilante quanto oppressivo si muove attorno alla gentile fanciulla ben interpretata da Kirsten Dunst, reduce dalle avventure dell’Uomo Ragno. 
Ma proprio mentre ci dichiariamo disponibili e ricrederci sulle virtù registiche di Sofia, il film perde quota. Attorno alla gentile protagonista non prende vita nessun personaggio rimarcabile, forse eccezion fatta - ma in senso negativo - per la prestazione di Asia Argento nei panni della Du Barry, qui ridotta a una passeggiatrice da raccordo anulare. Le altre figurine, dal marito impotente alle dame di compagnia, al bello e insipido amante, svaniscono nel generico e anche la vita della stessa protagonista sfuma nel nulla. Quanto magniloquenti e sontuose sono le grandi scene della vita di palazzo, tanto spenti e semplicemente accennati sono gli spazi lasciati per la vicenda rivoluzionaria, volutamente tagliata fuori come un “dopo” troppo risaputo. Una scelta coraggiosa se anche la parte narrata non fosse, già per suo conto, scivolata nel generico.
E allora Dieci con lode ai doviziosi produttori - sponsorizzati da papà Coppola -, dieci con lode ai costumi di Milena Canonero premiati giustamente con un Oscar. Per il resto, Sofia rimandata a ottobre.

BOJACK HORSEMAN



Un cavallo chiamato uomo
Parafrasando e rovesciando il titolo di un famoso film, “Un uomo chiamato cavallo”, la serie cartoon, prodotta e distribuita da Netflix, giunta alla terza stagione con una quarta in lavorazione, chiosa le avventure hollywoodiane di un divo di sit-com in procinto di diventare un ex-divo e insieme lo strano mondo che gli gira intorno: manager tuttofare, produttori esecutivi che rubano idee, ex-divi che assumono ghost writer per eternare o reinventare le proprie squallide memorie, divi bambini che a distanza di anni diventano spenti ma intraprendenti adulti. E così via. I
l tutto raccontato da Will Arnett, collaudato attore canadese, coadiuvato da Aaron Paul, protagonista giovane della celeberrima “Breaking Bad”, e interpretato da “animaloidi” e “umanoidi” mischiati insieme con molta fantasia e una grafica furbescamente elementare.
Sulla scia delle più celebri e popolari serie d’animazione dedicate a una certa satira (da “I Simpson” a “I Griffin”) la serie Netflix situa stavolta le sue invenzioni in un universo hollywoodiano (ma una Hollywood tarpata dalla D) con allusioni talvolta un po’ da addetti ai lavori. Ha successo e si può capire il perché. 
A me, dopo l’iniziale sconcerto per questi protagonisti umano-animali, a cominciare dal protagonista Bojack Uomo-Cavallo, ha divertito e sto consumando voracemente la seconda stagione.

GLEASON


Entertainer di cabaret e inventore o quasi del genere televisivo della sit-com, Jackie Gleason da noi in Italia è scarsamente famoso e ancor più scarsamente conosciuto. L’unico ricordo è legato alla sua prestazione nel film “Lo spaccone” (1961) con Paul Newman, a cui fecero seguito una dozzina di altri film. In America no, Gleason è un mito, uno dei miti di media o cospicua grandezza creati dalla tv. I
nevitabile quindi che la tv gli tributasse il doveroso omaggio attraverso l’immancabile telebiografia o biopic che dir si voglia. “Gleason” (2002) ha un inizio non particolarmente originale che poi si ricongiunge al finale: una sorta di confessione dell’anziano entertainer dà il via alla ricognizione biografica. Come spesso avviene in questi casi, la parte più seducente è quella legata all’infanzia del personaggio, con quel bambino grassottello sballottato fra una madre responsabile quanto apprensiva e un padre irresponsabile quanto vittima dell’alcool, l’incontro con la seduzione del music-hall, la scoperta del teatro. Più pasticciato il film-tv nel raccontarne la successiva scalata anche perché le sue esternazioni da uomo di cabaret, nel doppiaggio nostrano, non danno conto dell’attrattiva esercitata sul suo pubblico all’epoca. Amore, vita di famiglia, cammino un po’ scriteriato fra conquiste e occasioni perdute.
Che dire di più? Che il protagonista mostra una straordinaria somiglianza con l’originale e se la cava egregiamente e che la biografia scorre senza difetti e senza entusiasmarci. Ma le rievocazioni nostrane di eventi e personaggi televisivi del recente passato o addirittura del presente riescono a fare assai di peggio.

SEQUESTRO


Un bambino ferito e smarrito che cammina solitario lungo una via di campagna viene raccolto da una macchina di passaggio e condotto in ospedale. Non parla, è completamente atono. Individuata la madre, un’avvocatessa di successo, questa rivela agli inquirenti che suo figlio è sordomuto dalla nascita. Ma chi ha tentato di rapirlo all’ingresso della sua scuola? Il bimbo aiuta a ricostruirne l’identikit e nell’archivio delle foto individua il suo rapitore, un pregiudicato che vive d’espedienti. Dunque tutto risolto? E invece no, perché l’avventura incomincia solo ora. 
Ma perchè raccontare oltre di questo film spagnolo che Netflix propone con i soli sottotitoli italiani? Il seguito è imprevedibile. Sulla mendace indicazione del bambino, inventata per nascondere uno squallido caso di bullismo, il “cattivo” della situazione monta una truffa estremamente elaborata di cui sino al finale non conosceremo la soluzione. Ma non vi aspettate un film dalle tensioni esasperate e dalle suggestioni spettacolari, un misto fra il thriller e il film d’azione all’americana!
Il film ha la sua forza proprio puntando su una narrazione distesa, con un interesse e una tensione che nascono dalle cose e non da artifici di sceneggiatura. Rigoroso e fluido nelle riprese, puntuale e attento nella scelta e nella resa degli interpreti, “Boy Missing” è la riprova di come si possa far cinema, e buon cinema, senza bisogno di ricorrere a soluzioni già preconfezionate in partenza. E senza ricorrere agli espedienti del thriller o alle stampelle del divismo, sia pure casereccio, come da noi in Italia. Film di genere? Buon cinema innanzi tutto!

THE WHISTLEBLOWER



Quando vedo la scritta “tratto da una storia vera” precedere un film rimango sempre un po’ perplesso: cosa significa? Che il film intende essere “verosimile” rinunciando a trasferire nelle tassative regole del racconto un momento della realtà? Oppure che la vicenda trae spunto da un fatto realmente accaduto? O che il film vuol rispecchiare nei modi, nei luoghi e nei personaggi una vicenda reale, diventando quasi il suo “doppio cinematografico”? Discorsi complessi che ci porterebbero molto lontano. 
“Whistleblower” – cioè il “soffiatore di fischietto”, colui che denuncia pubblicamente trame che debbono rimanere coperte - segue l’ultima delle tre ipotesi di lavoro: è per metà la storia di una serie di violenze perpetrate ai danni di giovanissime ragazze bosniache, una vera e proprio tratta delle schiave, descritta a iosa con un’insistita serie di brutalità e sevizie iterate più del necessario, e per metà l’avventura della poliziotta americana giunta in Serbia ed Erzegovina con un incarico che dovrebbe servirle a risolvere alcune esigenze finanziarie ma che, impegnata a ricostruire certi fatti, scopre come nel traffico di esseri umani e nello sfruttamento della prostituzione, anche minorile, siano pesantemente coinvolti come aguzzini gli stessi membri delle forze di pace dell'ONU, portando in luce pericolose connivenze che avrebbero dovuto restare accuratamente coperte. 
Diretto da Larysa Kondracki, questo film del 2010 tenta di farsi “specchio” di una “storia vera” – la vicenda di Kathryn Bolkovac - utilizzando i luoghi dove si è svolto il fatto e più ancora attraverso l’uso di una fotografia contrastata, brutale, che vorrebbe simulare una “presa diretta” ma che fa l’occhiolino allo spettatore avvertito. Intento nobile nonché un po’ indigesto – in Italia il film non è stato distribuito sul grande schermo -, ma l’eccesso programmatico di insistita violenza nuoce in realtà proprio al realismo del film e alla sua compattezza. 
Interpretazione incisiva da parte della brava Rachel Weisz, pleonastiche le presenze di Vanessa Redgrave e di Monica Bellucci

TESS



Ultimo dei grandi romanzi inglesi dell’ottocento “Tess dei D’Ubervilles“ di Thomas Hardy racconta una storia non troppo dissimile da quella dei grandi romanzi coevi. La povera Tess raggiunge la casa signorile di quelli che si illude possano essere suoi lontani parenti, sedotta, vittima di violenza mette al mondo un bimbo che muore prematuramente, poi una vita sofferta nella povertà con quella dignità di fanciulla solitaria che le vicissitudini della vita non riescono a incrinare. L’amore, gli sponsali, la rivelazione del suo passato all’uomo che ama. L’abbandono da parte del consorte, la ricaduta nella più dolorosa povertà, poi la resa al seduttore che tardivamente la riaccoglie, e ancora: il ritorno dell’amato, il delitto, l’espiazione. Il caso e la società sembra cospirare contro la ragazza, che si trova a dover lottare per vivere. Quante vicende, tante da riempirne un lungo libro o un ancor più lungo sceneggiato. 
Roman Polanski non rappresenta i fatti, non li ricostruisce ma si limita a narrarli, uno dopo l’altro come in un severo resoconto contabile, ritagliando le vicende della sua eroina sullo sfondo costante del paesaggio inglese, accostando situazione dopo situazione, pagina dopo pagina, ma saltando o meglio ignorandone i raccordi e i passaggi, e inoltre saltando la rappresentazione diretta di delitti e conflitti drammatici, cioè di tutti quei momenti che uno sceneggiatore solerte e di routine sarebbe andato a ricercare ed evidenziare. Insomma il cammino contrario a quello che avrebbe seguito – o che spesso ha seguito – il trascrittore cinematografico di un corposo romanzo. Vicende e sentimenti vengono trascritte in modo quasi asettico e le pagine si sommano alle pagine senza soluzione di continuità. Un modo peculiare di respingere le tentazioni del dramma e della psicologia, a favore della pittura delle situazioni. 
Il film è assolutamente singolare, da vedere e rivedere, e nella ricca e composita filmografia dell’autore rappresenta un fatto a sé: un racconto volutamente privo di passionalità che, forse proprio per questo, scatena una sua intensa suggestione. Un ricco paesaggio umano e geografico, descritto con cura maniacale, quasi definito dalle figure e figurine che lo costellano, ma senza che queste si trasformino in personaggi autonomi. Una giovanissima Natashia Kinsky incarna il personaggio drammatico della protagonista, ma il regista si limita a registrare il muto alterno trascorrere delle nubi sul suo casto volto. 
Il film, scandito dal trascorrere delle stagioni e dalla descrizione attenta del duro lavoro dei campi – questo sì meticolosamente descritto - inizia con un lieto tramonto – quella danza di fanciulle biancovestite – e culmina con un’alba: l’assassina per amore che si allontana fra due militari a cavallo, con il marito a fianco verso il suo destino di morte.

I DON'T FEEL AT HOME IN THIS WORLD ANYMORE


Guarda su Netflix

Anche senza leggere le sigle – a proposito vi siete accorti che ora ogni film è preceduto da almeno tre sigle ? – ci si accorge subito che certi film hanno un’aura di freschezza e di improvvisazione, magari un po’ approssimata, che le grosse produzioni di serie A non hanno. Ai film cosiddetti indipendenti è consentito non dico sperimentare ma almeno saggiare volti nuovi, trovare ambiti diversi, raccontare in maniera più distesa, ricca di svolte non necessarie, prendersi pause e respiri. 
E il caso di questo film fresco di giornata (2017), dal titolo chilometrico che narra di Ruth, assistente infermiera un po’ depressa, ragazza solitaria, trasandata solitaria e zitella in ispirito che vive sola nutrendosi di romanzi fantasy e birra, che reagisce a un furto casalingo trovando un’impensabile solidarietà nel giovane vicino di casa, proprio l’individuo che le infesta i pochi metri di giardino con le cacche del suo cane. 
Opera prima dell’attore Macon Blair - che lo ha anche scritto - il film alterna toni da black comedy ad altri un po’ paradossali , un po’ thriller e un po’ commedia. Attori giovani e competenti e comprimari bravi e anche simpatici,. Il budget basso evidentemente aiuta a far camminare la fantasia, e non solo negli USA. 
Ma ci vogliono anche idee e “saperci fare”. Come in questo caso.

BANGKOK DANGEROUS - IL CODICE DELL'ASSASSINO

 

Con una lunga carriera e una serie di buone occasioni, Nicholas Cage, dell’illustre schiatta dei Coppola, non ci ha mai entusiasmato troppo come attore. Il suo volto scavato e drammatico per antonomasia, caratterizzato da due occhi costantemente sbarrati, è stato utilizzato nelle due versioni ammissibili: agnello sacrificale alla mercè dei cattivi, e supercattivo nemico dei buoni.
In quest’ultima versione lo ritroviamo, assassino su commissione, adottare il rigido manuale del perfetto killer. Collaudata macchina per uccidere sino a quando non compie due errori dettati da un paio di inammissibili rigurgiti di umanità: un delicato sentimento nei confronti di una giovane thailandese sordomuta e un atteggiamento paternalistico verso il giovane che lo aiuta a compiere i misfatti. Male, malissimo, perchè queste due infrazioni al codice lo condurranno alla rovina. 
Curiosamente il volto impassibile e scarsamente espressivo di Nicholas stavolta funziona, proprio perché a disposizione di un personaggio impassibile per definizione, e il film funziona altrettanto bene, con una storia risaputa ma scandita in modo sufficientemente originale. Bangkok, i suoi angoli celebrati dal turismo, il suo caos orientale, i volti della sua gente costituiscono un contesto nuovo per una storia che forse nuova non è.
Insomma un film d’azione scritto a metà fra il film all’americana e quello alla Hong Kong, a cui non c’è granchè da rimproverare.

HUMANDROID



Lunga la storia della lenta conquista di un’intelligenza autonoma, unita a una coscienza morale, da parte di individui meccanici creati dall’uomo - calcolatori, robot, androidi, automi ecc. - in parole povere: intelligenze artificiali contro intelligenze umane, macchina contro uomo. Più che di una lotta si tratta di un lento avvicinamento fra creatori e creature, i primi sempre più stolidi, i secondi sempre più avvertiti e irrequieti. Possiamo far partire la vicenda cinematografica di questo dissidio perlomeno da Stanley Kubrich e con la sua “2001. Odissea nello spazio”. Ma poi ci sono i “Robocop” – dove peraltro il rapporto uomo-automa è rovesciato -, e poi quel trepido film che è “AI. Intelligenza artificiale” di Spielberg, e chi più ne ha più ne metta. Perché non arretrare addirittura sino alla preistoria, con Meliès o con il Fritz Lang di “Metropolis”? 
“Humandroid” (2015) ci proietta nel solito mondo futuribile – stavolta situato a Johannesburg - dove un coraggioso quanto improvvido giovane inventore mette a punto la scheda per dare sentimenti e autocoscienza a un robot, residuato di un esercito di robot poliziotti creati per combattere l'alto tasso di criminalità della città. Il tutto in un mondo postapocalittico dove convivono brillanti tecnocrati e uomini retrocessi allo stadio di trogloditi. La storia un po’ pasticciata, come del resto si conviene a questo tipo di problematiche, procede talvolta speditamente talvolta a singhiozzo e Chappie, il robot fornito di apposita scheda che gli permette di possedere un'intelligenza artificiale senziente, compie in fretta la sua educazione sentimentale dando agli umani varie lezioni di umanità. 
Un po’ troppo fragoroso e con un eccesso di battaglie furibonde a base di sparatorie, il film conta non tanto sulla presenza centellinata e superflua di divi come Hugh Jackman o Sigourney Weaver, quanto su quella del robot Chappie – o di chi lo interpreta coadiuvato dal computer – nonché dei due rapper stralunati Yolandi e Ninja.

IL CASO O.J. SIMPSON: AMERICAN CRIME STORY



A me, amante delle grandi storie che sfidano il passato, sia remoto che prossimo, fa un po’ rabbia constatare come la fiction televisiva, da qualche anno a questa parte, da noi come nel resto del mondo, prediliga il presente, le storie della cronaca, sia pure rabberciate ed edulcorate per farle diventare favola. Ma tant’è, ormai i telespettatori sembrano gradirle. Da noi in Italia questa come altre tendenze diventano stucchevoli e la cronaca viene filtrata attraverso gli occhiali rosa della stampa gossip o attraverso quelli verdi o abbrunati di un sociologismo a buon mercato. Non faccio citazioni, sarebbe troppo facile. 
Ecco perché sono rimasto colpito favorevolmente, nonostante sia prevenuto, da questa serie dedicata al “caso O.J,Simpson”, prevista in dieci puntate, prima di un ciclo dedicato all’ “American Crime Story”. Intanto sceneggiatura magistrale, la cronaca – che peraltro conoscevo solo a grandi linee, molto genericamente – viene non scimmiottata in un tentativo di sommaria trascrizione ma trasferita in un articolato “romanzo”. In particolare nella storia di un complesso gioco giudiziario, una rappresentazione piuttosto brutale di come si amministra la giustizia negli USA. Cui fa seguito un’accurata realizzazione, veloce e moderna ma senza eccedere in effetti e “bellurie” non giustificate. 
E che dire degli attori? Da Cuba Cooding jr., protagonista non onnipresente ma efficace e indispensabile, a John Travolta che cesella il personaggio dell’avvocato, abile quanto cialtrone, a tutti gli altri. Insomma una impagabile lezione di tv.

IL GRANDE MATCH



Sia Sylvester Stallone che Robert De Niro oltre alle origini italiane hanno in comune un illustre passato pugilistico, come attori s’intende. Stallone con il fortunatissimo ciclo dei “Rocky”, De Niro con quel “Toro Scatenato” che gli procurò l’Oscar. E della saga dei “Rocky” questo “Il grande match” (2013) rappresenta una sorta di postilla: l’ammaccatissimo Stallone disputa un ultimo disperato incontro con l’anziano De Niro, ancora indomabile. 
Henry "Razor" Sharp e Billy "The Kid" McDonnen sono due pugili rivali di Pittsburgh, ormai in pensione. Entrambi, imbattuti e all'apice delle loro carriere, si sono affrontati due volte, vincendo un incontro a testa. E questa è l’ultima sfida fra due rivali, in pugilato come in amore: perché fra i due c’è la presenza di Kim Basinger che ama il primo ma che al secondo ha regalato un figlio. Insomma un bel groviglio sentimental-sportivo con i due colossi malconci ma non domi, litigiosi ma in fondo legati a doppio filo nello sport come nella vita. 
Scritto con garbo e con altrettanto garbo diretto da Peter Segal il film, zeppo di citazioni (dall’allenamento di Rocky alle smorfie di Jack La Motta) e con Alan Arkin che cesella da par suo il ruolo del vecchio allenatore, è anche una prova di forza per i due stagionati attori: Sylvester Stallone ripete il suo personaggio, scritto in modo saggiamente commisurato alle sue capacità e ai suoi limiti, e Robert De Niro, come sempre meraviglioso gigione, che costruisce il suo con il solito risvolto autoironico, sequenza dopo sequenza. Un film per una vasta audience ma che fa l’occhietto al “come eravamo”.

CORPO D'ELITE



La squadra speciale, vestita con le regolamentari tute nere, fa irruzione per neutralizzare una bomba atomica e... viene falciata dai terroristi: tutti morti! Sono i primi tre minuti di film: ma si tratta di una falsa pista per lo spettatore. La squadra speciale – quella che deve prendere il posto della precedente, destinata al recupero della bomba rapita - verrà formata, a cura del fascistoide Ministro degli Interni, riunendo assieme gli elementi più disparati, nonché rappresentativi delle varie realtà regionali spagnole. Chi sono questi aspiranti eroi da strapazzo? Fra loro alcuni spiantati nonchè un inflessibile ausiliario del traffico addetto alle multe. Insieme si formeranno (?), litigheranno, disputeranno e alla fine, dopo una serie di peripezie che non stiamo neanche a raccontare, tutto finisce in gloria. 
Sembra facile fare un film comico. Facile trovare lo spunto: la parodia dei film sulle squadre speciali e le loro epiche imprese e, per cominciare, la formazione della strampalata squadra composta da “idioti”, almeno all’apparenza. Ma trovare uno spunto non basta, lo spunto va sviluppato e soprattutto – trattandosi di un film comico – imbottito di gag. Diciamo subito che questo film ci riesce mettendo insieme un’operetta demenziale, sinceramente divertente. 
Non osiamo pensare a cosa avverrebbe se il soggetto venisse adattato dai cineasti nostrani, come adesso sembra essere di moda: un accozzaglia di regionalismi “grevi” con i soliti prevedibili attori e relativa sguaiataggini. Gli spagnoli navigano sicuri evitando i pericoli e “la comica” procede spedita con fantasmagorica esplosione finale di fuochi d’artificio.