SONO LA BELLA CREATURA CHE VIVE IN QUESTA CASA



In pittura ci sono le “nature morte”: sensazioni, emozione, una vera e propria visione della vita, calate e celate nella raffigurazione di pochi oggetti inanimati posti con studiata casualità su un tavolo. Nature morte come quelle carnali e rubiconde dei fiamminghi o algide ed essenziali come quelle di Morandi. 
Ecco, questo film dal titolo chilometrico, “Sono la bella creatura che abita in questa casa”, può essere definito una “natura morta”, e non perché pretende di essere catalogato fra gli horror ma perché molto ambiziosamente vuol ridurre ai minimi termini, essenziali e scheletrici, un intero racconto cinematografico. In breve: Lilly entra in una vecchia casa per assistere un’anziana scrittrice agli estremi della vita, si aggira fra pareti e vani scanditi da superficie vetuste ma essenziali, agli antipodi del gotico e del barocco, e fra queste pareti morandiane, grigie e decolorate come lo è anche un po’ se stessa, coltiva la propria inquietudine, nell’attesa, sempre inevasa, di incontrare o almeno scorgere la bella fanciulla che l’ha preceduta di un secolo e di cui forse intravedrà solo l’ombra. Sino a quando la morte coglierà la scrittrice che l’ha ospitata e sè stessa. Raccontata così sembra una storia drammatica ma il film non lo è. Per un’ora e mezza vediamo aggirarsi la ragazza nella casa vuota, fra pareti lineari, con una ricerca spasmodica della “bella inquadratura”, bella ma povera, come un Mondrian incolore, con la macchina da presa quasi sempre immobile. 
Un esercizio di stile – un po’ sterile? – che pretende molto dallo spettatore. Eppure non si può dire che non lo coinvolga in questa continua e "sospesa” tensione. Dimenticavo di dire che Ruth Wilson è l’interprete solitaria di tutto il film, con i soli interventi veloci di Paula Prentiss, che ricordavo giovane e bella, e qui fa la vecchia scrittrice, e Bob Balaban.

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