MOLTO FORTE, INCREDIBILMENTE VICINO


 
La tragedia dell’11 settembre 2001 è stata evocata direttamente o indirettamente da molte “commemorazioni” cinematografiche, a cominciare da “World Trade Center” (2006) di Oliver Stone. A questa certo non auspicata teoria si aggiunge anche questo “Molto forte incredibilmente vicino” (2011) diretto da Stephen Daldry e tratto dal romanzo di Jonathan Safran Foer, che ne tratta solo indirettamente e in modo traslato. 
Una famigliola felice, un rapporto tenerissimo e privilegiato fra un ragazzo di nove anni e suo padre, che perirà nella sciagura. Ciò produce ovviamente un forte trauma nel ragazzo che da un lato cova il rimorso di non aver risposto alla sua estrema telefonata dalla torre in dissoluzione, all’altro vuole perpetuarne il ricordo scovando il destinatario di una chiavetta che suo padre ha nascosto dentro un vaso. La ricerca sarà lunga e capziosa attraverso una New York lacerata nel morale e negli affetti e si concluderà ma non in modo miracolistico, perché quella chiave è solo il lascito di un altro padre ad un figlio ignorato, capitata per sbaglio nelle mani del suo genitore.
Ma la ricerca sarà servita al ragazzo per aprirsi a un mondo diverso e riscoprire l’affetto, forse tenuto in secondo piano, di una madre affettuosa che ha seguito di nascosto i passi della sua straziante ricerca. Ho trascurato la presenza di un nonno “apocrifo” e muto, che parla solo scrivendo biglietti, riconquistato alla famiglia. 
Un film tenero e gentile, nato evidentemente nel clima rievocativo della sciagura, ma senza i colpi bassi di una scoperta e programmatica commozione. Il ragazzo è bravo ed ha il merito di non essere stato scelto fra le faccine di prammatica, quelle fasullamente “belline” per far intenerire. I genitori sono due star – Tom Hanks e Sandra Bullock – evidentemente cooptati all’operazione, che riescono a dare smalto, pur con una limitata presenza, ai loro due personaggi. Lo pseudo nonno è Max von Sydow, molto vecchio ma ancora capaci d’imporsi anche senza parlare. C’è anche una breve “comparsata” – o cammeo che dir si voglia - di John Goodman.

HOMELAND SECURITY



Una commedia che dovrebbe essere divertente e forse lo è, tutto sta ad accontentarsi. Commedia, ma con un fondo di tristezza nel vedere la promettente diva di “Harry ti presento Sally”, 1989, la spumeggiante Meg Ryan dal sorriso irresistibile, rinforzata dai siliconi e dal butulinico, gigioneggiare per mostrare una freschezza da quarantenne ben portante che ormai non è più. E accanto a lei un Banderas abbronzatissimo fare un po’ la parodia del bel Banderas del 1998, ormai più assimilabile all’impareggiabile fornaio-biscottiere del Mulino Bianco che all’irresistibile giovane Zorro. A chiudere il trio di una distribuzione un po’ abborracciata il giovane Colin Hanks che al padre ha carpito solo una certa somiglianza ma non certo la bravura. 
Ma il film è soprattutto a servizio della Ryan che folleggia, diventata una silfide dopo l’inizio in cui, grazie al morphing, era camuffata da grassona, ne fa di cotte e di crude, frequenta giovani ragazzi e ha una vita sociale molto intensa. Rinfantilita in quanto agli amori, ha un severo giudice nel morigerato figliolo che lavora per l’FBI, sulle tracce di un famigerato ladro d’arte che, guarda caso, diventa il boy-friend di sua madre. 
Nel scoppiettante finale, nella contaminazione fra action, thriller e risate, specialità dell’autore-regista Gorge Gallo (“Prima di mezzanotte”), il tentato furto viene sventato e il Banderas si rivela in extremis non il paventato ladrone ma l’agente in incognito della solita CIA con finale in gloria. 
Ci siamo divertiti? Forse no, ma poteva andar peggio.

PARANOID


Cosa disfarci di noi stessi nel lavoro che svolgiamo giorno dopo giorno, cioè come disfarci del peso delle nostre paranoie private che finiscono fatalmente per condizionare il nostro operato e quindi il nostro rapporto con gli altri? E’ il tema sottinteso a questa nuova serie anglo-tedesca proposta da Netflix, almeno stando ai primi episodi. Siamo tutti un po’ paranoici, cioè ci trasciniamo dietro i nostri dilemmi, i nostri dubbi, la nostra insofferenza. anche quando dovremmo farci osservatori e giudici impassibili. 
Tre personaggi-guida, tre poliziotti - tanto per cambiare -. Lei è una quarantenne, mollata dal compagno dopo molti anni di convivenza, e quindi brutalmente esposta a bruciar gli ultimi anni di una giovinezza che le sta sfuggendo, lui è il giovane un po’ plagiato da una madre possessiva, che forse confida troppo in quest’avventura con una donna più anziana di lui. Il terzo è un anziano integerrimo poliziotto assalito da vere e proprie crisi di panico che cerca invano di nascondere. Tre personaggi che credono nel loro lavoro ma che ai quali il lavori non basta, sospesi fra impegno e angoscia. Un po’ paranoici. 
La storia è quella del solito assassino misterioso che i tre tentano invano di scoprire, una storia ben costruita, ambientata nella cittadina inglese di Woodmere. Narra del misterioso omicidio della Dottoressa Angela Benton avvenuto in un parco giochi per bambini dove la donna aveva portato a giocare il figlio Luke di 3 anni. L’elemento di novità è poi costituito da un “ghost detective”, cioè da un detective fantasma, che si diverte a interferire nelle ricerche dei nostri tre investigatori fornendo loro strani indizi. 
Seguiremo la vicenda, ma quello che per il momento ci ha colpiti è lo spazio riservato a queste tre paranoie portanti.

FIRELIGHT


 
Ha quasi vent’anni questo gentile romantico film inglese, scritto e diretto da William Nicholson, sceneggiatore drammaturgo e romanziere nella sua unica prova di regista, che ha il suo punto di forza nell’interpretazione, carismatica quanto controllata, di Sophie Marceau.
Siamo nel I837: una giovinetta, per salvare il padre da una catastrofe economica, accetta di partorire un figlio a un ricco signore inglese. Come da accordi, la bimba le viene sottratta appena nata. Trascorrono sei anni e vediamo la giovane questuare un posto di governante presso la famiglia che le ha carpito la figlia e che ella è riuscita a rintracciare. La giovane donna riuscirà a conquistarsi la fiducia della bimba nonché l’amore dell’uomo che le ha carpito la fertilità per ottenere un erede, poichè un grave incidente ha costretto per molti anni sua moglie in un irreversibile coma. 
La vicenda – che sa un po’ della brontiana Jane Eyre e un po’ di Jane Austen - è raccontata con il classico nitore inglese, dal cast alla scenografia, ai costumi, e ci riporta a un’epoca ormai trascorsa in cui anche il cinema del grande schermo non trascurava il romanticismo, nonché i finali tristi quanto consolatori. Sophie Marceau illumina il film con la sua luce discreta quanto intensa – la luce del focolare come suggerisce il titolo - accanto a un efficace Stephen Dillane ed a perfetti caratteristi, come da tradizione britannica.

BLACK MIRROR - TERZA STAGIONE



Il mondo di domani in una serie inglese di episodi nei quali il domani assume il volto di un universo informatico denso di insidie, nell'incedere e progredire delle nuove tecnologie, l'assuefazione ad esse ed i loro effetti collaterali. 

Terza stagione, numero uno, “Caduta libera”: armata di insostituibili smartphone la gente si giudica e si autogiudica in base al punteggio del proprio aggeggio. Per cui il comportamento e l’accettazione sociale dipendono dalle stelline che riusciamo a totalizzare e incamerare dai nostri simili, quelli che incontriamo per la strada o nel nostro edulcorato ambiente. Ne deriva un mondo fasullo, pieno di valutazioni false e di valori deformati e deformanti, come quello che con molto acume ci dipinge questo episodio. Fino a quando la malaugurata o beneaugurata funzione cede di fronte all’inaspettato e l’olimpo di sorrisi precipita. 

Ancor più “terribile” il terzo episodio, “Zitto e balla”, dove ognuno dei protagonisti è ricattato da una voce anonima, recapitata tramite l’immancabile smartphone, che minaccia di mettere in rete dei video privatissimi da cui dipende l’onorabilità e la vita dei malcapitati. Per evitare il sinistro gli sventurati dovranno compiere, su ordinazione e istruzioni fornite via via, azioni delinquenziali che, oltre tutto, li coinvolgeranno assieme. Una condanna terribile da cui è impossibile sottrarsi. Il breve film, come il precedente, ha il sapore di un divertimento amaro ed è sorretto da una realizzazione ineccepibile. 

Questi “black mirror”, giunti alla terza stagione, promettono di essere un prodotto per palati fini, molto meno evasivi di quanto potrebbero sembrare. Dopo la serie d’esordio dedicata soprattutto ad esperimenti formali, questa terza si rivela come un’avvincente lettura metaforica ma non elusiva del mondo in ci viviamo.

PUNTO D'IMPATTO - DERAILED



Esiste una sorta di sottogenere che potremmo chiamare “thriller ferroviario”, con un copione tassativo dal quale non è lecito né opportuno allontanarsi: alcuni passeggeri salgono a bordo di un treno, fra essi c’è il buono con una missione da compiere e una banda di cattivissimi in incognito. Lungo il viaggio inarrestabile ne succedono di tutti i colori: i cattivi si appropriano del treno e fanno fuori nel modo più spedito macchinisti e personale. 
Per una imprevedibile casualità il buono riesce a sfuggirgli. Da solo, o al massimo con l’aiuto di un sopravvissuto, deve riuscire a neutralizzare i cattivi, liberare gli ostaggi e sostituire i macchinisti uccisi alla guida del treno. Ma nel film in oggetto c’è molto di più: un virus letale racchiuso in tre fialette che potrebbe causare un’ecatombe ecologica, un ponte fatto crollare per neutralizzare la sciagura, il solito vagone pencolante sul vuoto da cui i buoni riescono a salvarsi in extremis, il capo dei buoni che invece è una cattivo, e così via. Il sottogenere è prolifico e i risultati sono di solito apprezzabili. La corsa inarrestabile garantisce la suspense. 
Potremmo fare esempi numerosi, a cominciare da “Cassandra Crossing”, di cui “Derailed” risulta per qualche verso un remake. Stavolta il buono ha il volto rassicurante di Jean-Claude Van Damme con famiglia al seguito, c’è poi una semibuona, che è una sicaria acrobatica, e una banda di cattivi dai volti più o meno anonimi, il solito generale che vorrebbe andare per le spicce e far bombardare il treno, il solito elicottero pronto a prelevare i cattivi a missione compiuta, e l’antidoto che salva tutti in extremis. 
Si può ironizzare fin che si vuole ma la formula funziona e il film assicura due ore di sana e collaudata suspense. Una curiosità: il film si apre con un bel panorama di Firenze (ripreso probabilmente da Piazzale Michelangelo) su cui campeggia in sovrimpressione la scritta: Vienna, Austria.

NARCOS



La seconda stagione di “Narcos”, serie capitana della programmazione Netflix, cerca di guadagnarsi una relativa autonomia rispetto alla precedente. La prima serie “Narcos” si presentava infatti come una severa ricostruzione, fra fiction e documentario, della storia pubblica e privata di Pablo Escobar, monarca dell’impero colombiano della droga e nel contempo raccontava la nascita e l’affermazione del traffico internazionale della droga, la dilagante diffusione della cocaina tra Stati Uniti ed Europa negli anni ottanta, il tutto mediante l’uso di un ricco materiale documentario saggiamente alternato con accurate ricostruzioni, tanto verosimili da sembrare più vere del vero. Conclusa, entro certi limiti, questa vicenda, la seconda stagione ripudia la forte presenza documentaristica per trasformarsi in una fiction, sia pure sui generis. 
Non temiamo di affermare che la prima puntata di questa seconda stagione è forse quanto di più efficace ci abbia fornito la televisione, almeno da vent’anni a questa parte, in fatto di fiction. Una storia scritta e fotografata con piglio sicuro, senza lenocini formali che sopravanzino la forza delle cose e dei fatti raccontati, con un gruppo di interpreti d’eccezione, cominciare da Wagner Moura nel ruolo di Pablo Escobar, un padrino protervo e insieme legato a biechi costumi ancestrali. Escobar miscela costumi e atteggiamenti frutto di una tradizione secolare – il culto della famiglia, il maschilismo assoluto, la prostrazione della condizione femminile, la cieca dedizione richiesta ai “picciotti” - a un uso indiscriminato della violenza, che non concede alternative, in cui la morte e l’unica punizione consentita ai traditori e alle spie. 
Come non pensare alle organizzazioni mafiose di casa nostra, ma insieme al modo edulcorato, di maniera, falsamente melodrammatico, in cui molte delle nostre fiction – non tutte per fortuna - le ritraggono? Il racconto di “Narcos” non concede soste, mescolando con saggezza momenti privati della vita del padrino agli avvenimenti “pubblici” dello stato colombiano, con politici e poliziotti proni, imbelli o destinati ad arrendersi. 
Ma ciò che ci interessa mettere in rilievo è soprattutto l’originalità assoluta del modo di raccontare, con una o più camere mobili ma senza equilibrismi sofisticati, con un montaggio che segue l’azione e non teme di alternare momenti statici con ritmi concitati. E come dimenticare i volti? E la recitazione, non veristica né verosimile ma vera, autentica? 
Con questa serie Netflix si aggiudica un primato difficilmente superabile, che non ci fa certo rimpiangere il cinema.

LE INVASIONI BARBARICHE



Premiato con l’Oscar 2003 quale miglior film straniero, tutto il mondo lo ha visto e lodato questo film canadese. E io no. Così ho approfittato di Netflix per vedermelo. 
Film arduo sul tema dell’eutanasia ma su tanti altri temi e motivi. L’abbandono del malato, gli ostacoli della pseudo-organizzazione ospedaliera, la corruzione irrefrenabile di sindacalisti e burocrati, il valore onnipotente del denaro, - di cui il figlio del malato terminale fortunatamente dispone, riuscendo a procurare al padre morente l’amicizia prezzolata degli ex-amici, la compassione, il “conforto” della droga e infine la dolce morte per overdose, - e tanti altri temi toccati con leggerezza ma non evitati e senza fare l’occhiolino di prammatica allo pseudogiornalismo e al “politically correct”. 
Un film singolare come tutta l’opera di questo regista che non teme di affrontare temi ardui (da “Jesus of Montreal” al “Declino dell’impero americano”) ma lo fa senza la presunzione di scioccare lo spettatore, semmai di invitarlo a riflettere. Così, nel film, si parla della morte fisica ma anche di quella della società. La morte fisica fa da contro altare al morire delle ideologie, dei progetti utopici, delle religioni e del sistema economico fondato su liberismo e capitalismo.

IL SOSPETTO




Il film – danese-svedese - ha fatto il suo corso quattro anni fa, premiato a Cannes per il protagonista (Mads Mikkelsen) e altrove con una vera batteria di Palmarès. E’ ambientato in una piccola comunità molto maschile, fatto di uomini rudi che si divertono a cacciare i cervi e bere birra. Ma ci troviamo in un asilo d’infanzia, fra bimbi che giocano in cortile e adorano il loro istitutore simpatico e giocherellone.
Per colpa di una bugia ripetuta da una piccolissima che si è sentita offesa perchè rimproverata dal suo amatissimo tutore e amico di famiglia, bugia ispirata da alcune immagini sessuali carpite dalla tv, si scatena “il sospetto”. Un po’ stupidamente la direttrice dell’asilo mette in giro la voce che l’uomo possa aver “dato fastidio” alla bambina. E sotto l’immediata virulenze delle madri alla ricerca ossessiva di conferme, il sospetto diviene certezza: l’uomo è vittima di un minaccioso e ostile ostracismo che non risparmia neanche suo figlio. La comunità lo bandisce, lo rigetta sino a diventare violenta nei suoi confronti. Vane le sue disperate difese. Sarà un processo lungo e terribile. La resurrezione è lenta e torturata. Solo un anno dopo questi fatti troviamo la comunità apparentemente pacificata perché le accuse si sono dimostrate del tutto infondate. Ma pacificata a che punto? Nell'ultima scena del film Lucas è mancato per un soffio da un colpo di fucile esploso da una sagoma indefinita in lontananza. 
Scritta, prodotta e diretta da Thomas Vinterberg, la vicenda, raccontata con una sobrietà esemplare, senza coinvolgere i piccoli attori in scene imbarazzanti, mostra sconvolgenti analogie con quella che si verificò anni fa a Rignano Flaminio, nei pressi di Roma, quando per colpa di alcune madri mitomani alcune persone perfettamente innocue e per bene subirono per troppo tempo sospetti accuse e processi. Dimostrazione che anche nel nostro presente – e non solo nei paesi nordici fra le piccole comunità di “uomini duri” – possono verificarsi episodi da vera e propria caccia alle streghe.

A VERY SECRET SERVICE - AU SERVICE DE LA FRANCE


Da oltre cinquant’anni l’avvento cinematografico dell’agente 007 ha scatenato la fantasia e il desiderio di emulazione di decine di cineasti: imitazioni, doppioni, parodie. E prestazioni per i comici di turno, in Italia da Lando Buzzanca a Ciccio e Franco.
Netflix ci propone questa serie francese (Au service de la France), nata nel 2015, dove un novellino viene cooptato da Servizi segreti, gestiti da figuri talmente cinici da apparire ridicoli, vagliato dal direttore delle operazioni e, con molta riluttanza dai colleghi più anziani - Moulinier (responsabile degli affari africani), Jacquard (Algeria) e Calot (per il blocco sovietico), e finalmente introdotto in operazioni di cui è completamente ignaro. Particolarmente divertente quella per promuovere l’indipendenza di alcune ex-colonie. 
Dopo la visione delle prime puntate ci sembra che non sempre i riferimenti geo-politici, molto francesi, risulteranno commestibili per il pubblico nostrano. Ma intanto alcune caratteristiche della serie appaiono evidenti: una certa urbana spregiudicatezza nell’ironizzare su fatti personaggi e avvenimenti del loro recente passato, ma senza cadere nei soliti luoghi comuni, fatali per i nostri cineasti, una buona dose di ironia non plateale, una scrittura civile e in punta di penna, una scelta singolare sia dei personaggi che degli attori che li interpretano, un rifiuto del politically correct a tutti i costi, scegliendo un umorismo non sbracato popolare e riuscendo a imporre un suo stile e un’identità indipendenti dalle comedy di marca americana. 
Fra gli autori ritroviamo lo spirito di Jean-Francois Halin, il creatore dei film dell’agente OSS 117, divertentissime parodie dove eccelse l’estro di Jean Dujardin,

GRIDLOCKED



Quando si dice un film d’azione! Il contingente di colpi e armi da fuoco impiegati nel film sarebbe sufficiente per una decina di conflitti mediorientali. E in effetti ci risulta che questo film canadese abbia stabilito il record per il maggior numero di proiettili sparati sullo schermo. Qui la battaglia all’ultimo ucciso si scatena, all’interno di una sorta di caserma, fra due schiere di poliziotti – quelli buoni e leali e quelli disonesti e sleali, nonché mercenari - che si combattono fra loro. 
Lo spunto non è del tutto originale – c’è un vecchio film con Michael J.Fox e James Woods di cui non ricordo il titolo – ma sempre utile: per ammortizzare una condanna penale, un divetto del cinema accetta di sottoporsi a un periodo di “rieducazione” affiancando un poliziotto. Accolto inizialmente con sufficienza dal robusto e agguerrito partner, il divetto avrà luogo e tempo per riabilitarsi e partecipare alla grande sparatoria. 
Gli attori non appartengono al gotha del cinema ma funzionano, a cominciare dal protagonista di fatto, un Dominic Purcell che fa un po’ il verso a Statham, Van Diesel ed altri “forzuti”. Lo spettatore perde il conto dei morti ma risulta appagato quanto basta da questo gioco ben condotto, forse un po’ vecchio stile.

MASCOTS



Obbligatoria – e ne abbiamo avuto contezza dalla visione di numerosi film – la presenza di “mascotte”, majorettes, pompom e simili nel corso di manifestazioni sportive o nel vasto panorama di manifestazioni USA. A tal punto che l’impiego di una mascotte, utilizzata anche come logo cioè come immagine-simbolo, è diventato d’uso comune nei grandi eventi internazionali, dove può funzionare anche da portafortuna. 
Il film-documentario “Mascots” tratta dell’annuale gara fra mascotte per l’assegnazione dell’ambito riconoscimento. Vi convengono concorrenti da tutte le parti degli States e oltre, coppie o singoli, seri o meno seri professionisti, che hanno come solo scopo e ideale nella vita quello di indossare un abito buffo e surreale ed esibirsi in coreografie esilaranti per sostenere una squadra o eccitare le folle presenti a un avvenimento sportivo. Il “documentario” in oggetto offre interviste ai vari partecipanti, segue la loro preparazione, registra le esibizioni della gara, ne commenta i risultati. 
Solo che è tutto fasullo: il documentario è falso, si tratta di un film a soggetto truccato da documentario – il Woody Allen di “Prendi i soldi e scappa” ha fatto scuola – uno di falsi-doc che formano la specialità del singolare regista Christopher Guest, come “Campioni di razza” (2000) e “Amici per la musica” (2003). Con “Mascots” (2016) Guest ci riprova, con molto spirito e una buona dose d’ironia. 
Non sempre il gioco gli riesce e le interviste (specie nella parte iniziale) appaiono un po’ prolisse, specie per il pubblico nostrano. Ma il cinema è anche questo e in un’epoca che promuove grigi e risaputi documentari al massimo podio dei Festival un esercizio del genere può essere persino salutare.

SONO LA BELLA CREATURA CHE VIVE IN QUESTA CASA



In pittura ci sono le “nature morte”: sensazioni, emozione, una vera e propria visione della vita, calate e celate nella raffigurazione di pochi oggetti inanimati posti con studiata casualità su un tavolo. Nature morte come quelle carnali e rubiconde dei fiamminghi o algide ed essenziali come quelle di Morandi. 
Ecco, questo film dal titolo chilometrico, “Sono la bella creatura che abita in questa casa”, può essere definito una “natura morta”, e non perché pretende di essere catalogato fra gli horror ma perché molto ambiziosamente vuol ridurre ai minimi termini, essenziali e scheletrici, un intero racconto cinematografico. In breve: Lilly entra in una vecchia casa per assistere un’anziana scrittrice agli estremi della vita, si aggira fra pareti e vani scanditi da superficie vetuste ma essenziali, agli antipodi del gotico e del barocco, e fra queste pareti morandiane, grigie e decolorate come lo è anche un po’ se stessa, coltiva la propria inquietudine, nell’attesa, sempre inevasa, di incontrare o almeno scorgere la bella fanciulla che l’ha preceduta di un secolo e di cui forse intravedrà solo l’ombra. Sino a quando la morte coglierà la scrittrice che l’ha ospitata e sè stessa. Raccontata così sembra una storia drammatica ma il film non lo è. Per un’ora e mezza vediamo aggirarsi la ragazza nella casa vuota, fra pareti lineari, con una ricerca spasmodica della “bella inquadratura”, bella ma povera, come un Mondrian incolore, con la macchina da presa quasi sempre immobile. 
Un esercizio di stile – un po’ sterile? – che pretende molto dallo spettatore. Eppure non si può dire che non lo coinvolga in questa continua e "sospesa” tensione. Dimenticavo di dire che Ruth Wilson è l’interprete solitaria di tutto il film, con i soli interventi veloci di Paula Prentiss, che ricordavo giovane e bella, e qui fa la vecchia scrittrice, e Bob Balaban.

DEAD SILENCE



Non ci sarebbe molto da dire su questo horror di serie B, stilato secondo le regole del “genere” ma con una certa compiacenza per lo splatter - cimiteri, tombe, morti assortiti eccetera – se non costituisse la vera e propria sagra dei “pupazzi maledetti” dagli occhi semoventi e dalla mascella mobile, insomma quelli che un tempo usavano i ventriloqui. 
Quello dei “pupazzi malefici” o delle “bambole assassine” è un vero e proprio sottogenere dell’horror, basti pensare alla terribile dinastia dei Chucky, che ha fruttato almeno sei film, e a tutte quelle rappresentazioni di pupazzi e bambolotti che, nella loro artificiale innocenza, celano un’aurea maligna e perversa e istinti da killer. In maniera bislacca e decisamente terrificante questi film si rifanno a un tema antico, quello dell’icona, del feticcio, che può facilmente caricarsi di potenza magica e vivere di vita propria. Ma anche al tema del burattino o della marionetta a cui il burattinaio – palese o ascoso – può infondere un’anima e una personalità. Come in certi riti animalisti, quasi “per effetto diabolico”, si assiste alla degenerazione malefica del fantoccio, la materia che si carica di energia vitale, tema non molto dissimile da quello più moderno e aggiornato del robot che ingaggia una lotta con il suo creatore, varcando i limiti da lui assegnatigli. 
Nel film in oggetto assistiamo a una vera e propria sagra del fantoccio, del pupazzo ai quali un’orrida e defunta burattinaia affida la propria vendetta e il proprio odio.

KING OF TEXAS



Sulle interpretazioni cinematografiche e televisive di Shakespeare si potrebbe scrivere un grosso saggio. Dalla nascita della Settima Arte si sono moltiplicate con puntuale regolarità. Le trascrizioni di “Romeo e Giulietta” non si contano, quelle di “Amleto” vengono a ruota, ma poi tante altre, da “Machbeth” a “Enrico V”, a “Riccardo III”. Tanto più apprezzabili e apprezzate quanto più si tengono strette al linguaggio e al testo del Bardo, che ha già pensato in anticipo, se non alle ambientazioni scenografiche sempre rinnovabili, a definire temi e personaggi con l’uso di una “parola” che sconfina e si confonde nella poesia. Un’indagine sull’umanità e sulla vita non inferiore a quella della “Commedia” di Dante. 
Negli ultimi anni abbiano assistito a singolari edizioni shakespeariane, che hanno cercato nuovi modi e collocazioni, storiche o fantastiche, in cui collocare e far rivivere questi testi. Ricordiamo in modo particolare il “Riccardo III” con Ian McKellen, “Coriolano” di Ralph Fiennes, l’Amleto con David Tennant, “La tempesta” con Helen Mirren. Senza dimenticare i grandi exploit di Laurence Olivier e Kenneth Branagh. 
Con questo “King of Texas” (2002) il regista Uli Edel si è spinto su una strada peraltro già battuta: approcciare e prendere le distanze dal testo del “Re Lear” per ritrovarne personaggi e tematica stavolta in un West dai larghi orizzonti. Ed ecco Patrick Stewart, attore shakespeariano per eccellenza oltre che capitano della Enterprise, vestire i panni di un protervo latifondista con la deprecabile idea di dividere il vasto feudo fra le sue figlie, per venire poi ripudiato dalle prime e trovar rifugio presso la terza che era stata da lui diseredata. 
E’ evidente che il film segua la trama del “Re Lear” con tutto quel che segue, scontri, tradimenti, follia: ma ridotta all’osso, ripudiandone al novanta per cento quel linguaggio che ne rappresenta la sostanza, storia e personaggi appaiono depauperati, privati della loro valenza drammatica e poetica, e il film risulta schematico, direi semplicistico. La trasposizione è audace, ma di trasposizioni audaci, in grado di sostenere la ricchezza del Bardo, ne abbiamo viste ben altre e con ottimi risultati, mentre stavolta, pur nella ricchezza di azioni, scontri e personaggi, il film dà un senso di povertà, come se un ricco bottino fosse stato malamente saccheggiato. Peccato!