Ci sono alcune formule narrative che al cinema funzionano, eccome! Più
frequentemente, ma non esclusivamente, nel cinema cosiddetto di serie B e
nei film-movie. Per esempio la formula della fanciulla rapita –
preferibilmente fra i quattro e i sedici anni - ad opera di un maniaco,
da un violentatore, per una vendetta familiare, per ottenere un riscatto
eccetera. E si aprono le prime problematiche: fidarsi della polizia,
di quel detective, uomo o donna che sia, tanto bravo, zelante e
comprensivo quanto impotente? Oppure affidarsi all’irregolare,
ubriacone, drogatello ma capace di battere strade segrete e rintracciare
la fanciulla che peraltro, nel frattempo, ha già provato con relativo
successo a tentare la fuga? Oppure è il papà che si fa in quattro e che,
superato lo zelo di poliziotti invadenti quanto incapaci, riesce a
liberare la figlioletta. Altro schema di sicuro successo, che va per la
maggiore, è quello del serial killer. I cosiddetti tutori dell’ordine,
quelli della squadra omicidi, se ne accorgono sempre tardivamente, dopo i
primi tre o quattro cadaveri eliminati in modo analogo, ma non riescono
a rintracciare e neutralizzare il maniaco prima che abbia fatto altre
tre o quattro vittime... Più saggiamente centellinato dal cinema è lo
schema dell’aspirante vittima, immobilizzata o menomata per un qualche
handicap: paralizzata in carrozzella, non vedente, e quindi incapace di
sottrarsi all’agguato del persecutore che le s’introduce in casa. Uno
schema che ha coinvolto grandi attrici, da Dorothy McGuire a Barbara
Stanwyck, a Audrey Hepburn, sempre con buoni e talora ottimi risultati, e
a cui gli americani hanno dato pure un nome: home-invasion.
“Il terrore
del silenzio” (Hush) fa suo questo ultimo schema introducendovi alcune
varianti: stavolta l’eroina è una scrittrice sordomuta che abita da sola
in una casa in mezzo alla foresta, una di quelle case
attira-malintenzionati. La donna si affida a un cellulare speciale, al
suo computer nonché ad un amica che va a trovarla ogni tanto rompendo la
sua solitudine, necessaria – chissà perché? - per portare a termine il
suo secondo romanzo. E il suo parto letterario è giunto quasi al finale.
Ma una bella notte arriva a violare la sua bella solitudine un
individuo mascherato e armato di balestra che comincia col farle fuori
l’amica. Oltre che sordomuta la scrittrice è anche distratta e non fa
troppo caso alle immagini drammatiche che prendono forma appena fuori
delle ampie finestre di casa sua: non si accorge, se non tardivamente,
delle invocazioni d’aiuto dell’amica morente e dell’assassino in
agguato. La suspense, la tensione, seminata di terrore, acuita dagli
sguardi sbarrati dell’aspirante vittima (la brava Kate Siegel), regge
alla grande per tutto il film che, anche se il tema non è nuovo, ancora
una volta non delude lo spettatore per quel suo modo un po’ sadico, ben
costruito, di narrare, e questo nonostante si riduca sostanzialmente a
due personaggi e ad un’unica location.
Una conferma che non sempre ci
vogliono grandi mezzi e schiere di attori. Il regista Mike Flanagan, che
ne è anche lo sceneggiatore e il montatore, riesce a raccontare con
rigore questa storia risaputa fin che si vuole, giungendo a mantenere lo
spettatore in tensione per tutta la sua durata e provocandolo con
continui ma cadenzati colpi allo stomaco.
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