CAPTAIN AMERICA: IL PRIMO VENDICATORE


I supereroi sono dietro l’angolo, fieri dei loro superpoteri e ciononostante afflitti non di rado da tristezze esistenziali, quasi vittime di una condanna che li costringe ad essere vincitori ad ogni costo su nemici molto più disinibiti di loro, Superman, Batman, Spiderman, Hulk e company.
Nato negli stessi anni sulle pagine dei fumetti, Capitan America condivide alcuni di questi caratteri ma non tutti. La guerra contro nemici, se non veri perlomeno verosimili – come i nazisti di “Teschio rosso”, un seguace di Hitler divenuto anch’esso “super” grazie ai poteri della scienza –, l’ha reso coriaceo alle eccessive inquietudini che colpiscono i suoi colleghi gravati da oscuri destini. Tranne il dato di partenza: quell’indigesta inferiorità fisica che gli impediva di essere arruolato e fare la sua parte nel secondo conflitto mondiale e che il cocktail di sieri vari, preparato da uno scienziato probabilmente ebreo – il “nostro” Stanley Tucci -, gli ha permesso di superare donandogli un fisico da superpalestrato Vinte le mene del politico che ne voleva fare semplicemente un eroe da musical o un’icona di vittoria, Capitan America diventa un soldato vero, un eroe a sue spese, coadiuvato soltanto da un gruppo di commilitoni in armi e da un superscudo speciale, volta a volta arma di difesa e di offesa, nonché insuperabile boomerang. Nelle imprese belliche - solo un po’ da videogioco ante-litteran - Captain America è soltanto il prototipo di un generoso, e alla fin fine sfortunato, “eroe di guerra”. 

Il film ha il pregio di conservare l’aura “anni Quaranta” del fumetto originale, direi che fra tutte le produzioni promosse e orchestrate dalla Marvel questa è la più semplice e insieme la più solare, aliena da complicazioni ereditarie o psicanalitiche e per questo particolarmente apprezzabile. Ma lo sconcertante e melanconico finale che chiude questo primo capitolo - diretto da Joe Johnston nel 2011 – apre ad altre avventure: secondo capitolo e terzo capitolo già in circolazione e ulteriori in lavorazione.

THE HOUSE OF CARDS TRILOGY (BBC)



PRIMA STAGIONE

I grossi ratti prolificano per le strade e negli angoli nascosti della bella Londra, una metafora che punteggia tutti i capitoli (4 per la prima stagione 1990) di questa miniserie inglese la cui sceneggiatura è stata adattata da Andrew Davies ispirandosi al romanzo scritto da Michael Dobbs, ex Capo dello staff presso il partito conservatore.
La serie ha trovato una fortunata riedizione anche negli Usa con Kevin Spacey protagonista, ma qui, in piena Inghilterra, attorno al personaggio dell’uomo politico Francis Urquhart, splendidamente interpretato da Ian Richardson, affascinante quanto repellente, è in stato d’accusa tutta una classe politica che gioca sul sotterfugio e sulla selvaggia reciproca eliminazione, anche fisica, schermata dietro la solida cortina del perbenismo. Rivolgendo puntualmente lo sguardo all’obbiettivo e “parlando alla telecamera”, come si suol dire, il protagonista rende complici i suoi spettatori a cui svela i sotterfugi e gli equivoci della politica “politicante”. Il tutto all’interno di una ricostruzione scenografica e di un linguaggio politico ineccepibili. 
Un splendida lezione di cinismo a cui la serie dà un esito piuttosto “giallo”, quasi ad esorcizzarne la spietata verosimiglianza con la realtà di tutti i giorni e di tutti i paesi. 


SECONDA STAGIONE - SCACCO AL RE

Avendo esaurito la visione della seconda stagione della serie BBC “House of cards” sono in grado di capire la profonda differenza che separa un’acuta e arguta satira sul mondo politico dai goffi e puerili tentativi portati avanti dal cinema italiano. In poche parole quanto sia vasto il divario fra il disegno, terribile nella amabile descrizione di un mondo politico immaginario, calcato su una nazione che è l’Inghilterra ma passibile di letture più vaste, dalle sgraziate parodie tentate da alcuni nostri registi: penso all’osannato “Divo” con la goffa teoria delle sue “macchiette” e dei suoi pupazzi foggiati sui politici nostrani, buoni a far sghignazzare solo spettatori radical chic, o anche al guazzabuglio del “Caimano” morettiano raccontato con stentato livore. 
Ma torniamo in Inghilterra che è meglio: narrando i destini e le fortune politiche di Mister Urquahart, che non somiglia ad alcun uomo politico in particolare, nonchè del re d’Inghilterra, che non somiglia ad alcun monarca inglese in particolare, gli autori riescono a raccontare un mondo di sottili perversioni, di battaglie segrete, di amori e di rancori, imprimendo alla storia anche un piglio autenticamente “romanzesco”. Avevamo avuto il timore, vista la prima puntata del nuovo ciclo, che la serie prendesse troppo le distanze dalla feroce cattiveria del primo ciclo, ma la visione delle successive ci ha fatto fortunatamente ricredere: stessa cattiveria, stessa feroce satira con un più d’invenzione. 
Da ultimo non posso non soffermarmi sugli attori. Così sottili, attenti, espressivi, in una parola perfetti. Mi riferisco in modo articolare a Ian Richardson, che è il sottile ambiguo perverso e incantevole primo ministro e alla bionda sua partner che, in quanto a finezza recitativa, non gli è da meno. Senza far torto a tutti gli altri. Una serie che ci riconcilia con il cinema e con la tv e che, dall’alto dei suoi vent’anni di età, resta una lezione esemplare e irrepetibile. 


TERZA STAGIONE - ATTO FINALE 

(SPOILER!)

Tanto entusiasta delle prime due stagioni della serie BBC quanto deluso da questa terza ed ultima. Intendiamoci bene. L’intrigo è sempre avvincente, anzi stavolta si fa più eminentemente politico e, trascurate gli indugi sulla vita sentimental-erotica dell’impagabile Urquhart, prende in considerazione la dura lotta di successione fra leaders per altro coinvolti in un complesso affare di stato: un accordo truffaldino per la composizione di un trattato fra le due frazioni cipriote, con il losco retroscena di un affare di sfruttamento petrolifero e il finale con un cecchino appostato che risolve il tutto. Segue un serie di tradimenti a catena, di giochi sporchi a base di ricatti, di voltafaccia politici e il “final cut” con un attentato preparato e l’uccisione del nostro protagonista. 
Vicenda a parte si ha la netta comprovata sensazione che vi sia stata una feroce riduzione di budget e una sorta di disinvolto sfruttamento finale di una serie che aveva raggiunto i più alti livelli per due stagioni consecutive. Le location sono estremamente ridotte, le cosiddette “scene di massa” sono gestite con il minimo di mezzi, il fine gioco delle riprese e delle curatissime immagini ridotto a una serie fitta d’incontri verbali dove il classico impiego televisivo dei piani ravvicinati, campo-controcampo, ha la meglio. Gli stessi “a solo” del protagonista rivolto alla macchina da presa, che erano stati una delle trovate principe, diventano pleonastici dichiarazioni usate più come raccordi narrativi che come commenti di sapore satirico, oltre tutto colte mentre il protagonista si trova in gruppo e quindi depauperate nel loro significato di furbeschi ammiccamenti riservati allo spettatore. Molto meno umorismo, molto meno fantasia, pleonastiche scene di sesso, francamente goffe, fra due attempatelli ben portanti. 
Giocano inoltre a sfavore della storia la mancanza di un valido e aggressivo personaggio femminile, presente nelle prime due serie, non suffragato stavolta dai personaggi della moglie di Urquhart e della segretaria-amante del rivale, entrambe decisamente meno intriganti delle precedenti. Fotografia, interpreti, location tutto al risparmio. Ian Richardon si agita in un semideserto di validi comprimari che siano in grado di fargli fronte.
Peccato, la bella storia è decisamente buttata via o portata avanti al solo intento speculativo di occupare un’altra stagione. Non ce l’aspettavamo dalla BBC.  

THE SKELETON KEY


C’è una specie di codice, o se volete di manuale, per gli aspiranti registi di horror: case maledette probabilmente stile ottocento e neo-gotiche, pertugi segreti in fondo a soffitte inabitate, spifferi che fanno ondeggiare sedie da giardino, cigolii assortiti e porte che sbattono, dettagli di piedi che percorrono corridoi o di mani che sfiorano usci, vecchie foto che sbucano da sotto qualche libro ammuffito, il tutto di notte e fra implacabili temporali.
Ma ci sono horror si serie B e horror di serie A. Tutto sta come declinare queste suggestioni, come confezionarle, usando o talora abusando della credulità dello spettatore. Stavolta è il cast a fare la differenza: non i soliti volti di sconosciuti, scritturati per imprese che, se non garantiscono la gloria, forniscono una buona prestazione lavorativa, ma volti importanti, legati ad attori di solida reputazione. La ragazza è Kate Hudson, doppia figlia d’arte (mamma Goldie Hawn e papà Kurt Russell), qui convincente nel primo ruolo complesso della sua giovane carriera, dopo una serie di commediole in cui tentava invano di fare il verso a mammà. Poi c’è la veterana Gena Rowlands che gli anni, più che il trucco, hanno reso adatta a far da megera indemoniata, e John Hurt, che riesce a imporre la sua presenza nonostante il suo copione preveda solo un tentativo di battuta a gola serrata. Più pleonastico Peter Sarsgaard qui decisamente a disagio. 
Alla casistica horror di cui sopra si unisce il cerimoniale vodoo con relativo tuffo nella più accreditata magia nera e un illogico finale – ma è lecito parlare di logica in un horror? – in cui due stregoni si calano non tanto docilmente in altrui corpi per assicurarsi a loro spese la sopravvivenza. 
Insomma un bel pasticcio, ma un pasticcio di buon livello che assicura i dovuti brividi, peraltro non eccessivi né imprevedibili.

MAGDALENE


Dalla straripante miniera di Netflix abbiamo attinto un film che ci era sfuggito – come sfuggono al pubblico l’ottanta per cento dei film premiati nei Festival – nonostante l’aureola del Leone d’oro conquistato nella competizione del 2002. 
“Magdalene”, coproduzione irlandese-scozzese racconta, attraverso una pagina efficace, la storia di una maledetta istituzione come i “reclusori-conventi” della Maddalena – estinti solo nel 1996 - e dedicati a recuperare le “ragazze perdute”, attraverso i quali – ci informa una didascalia finale – passarono circa trentamila disperate prima che la “benefica” istituzione cattolica fosse finalmente eliminata. Le ragazze di cui seguiamo da vicino la storia sono Margaret, violentata dal cugino durante un festino matrimoniale, Rose una ragazza madre a cui viene strappato il figlio dalla famiglia “benpensante”, e Bernadette, un’orfanella un po’ civettuola o sensibile agli apprezzamenti maschili, nonchè Christine, un’altra ragazza madre labile di cervello. Queste ed altre inserite in una serie di lavori forzati all’interno di una sorta di lavanderia industriale, conculcate nel corpo e nello spirito da suore-aguzzine. 
Un inferno dantesco che l’autore-regista Peter Mullan descrive senza indulgere nel pietismo, nella facile commozione o nella drammatizzazione di maniera, difetti riscontrabili in molte o quasi tutte le opere dedicate ad esplorare il mondo dei conventi e dei reclusori femminili. Un film rigoroso quanto impietoso, descritto con un realismo sobrio nella sua terribile oggettività. I volti sono eccezionali, il linguaggio è esemplare: un Leone più che meritato. Va dato atto a questa produzione, varata da due paesi a forte presenza cattolica, di aver avuto il coraggio di tradurre in racconto una denuncia che mette in stato d’accusa la benpensante comunità del paese: l’azione del film inizia nell’anno 1964, ma sembra di essere almeno in pieno ottocento.

IDENTITA'



Una volta venivano definiti “matrimoni misti” e guardati con una certa diffidenza i sodalizi fra persone diverse per etnia o razza. Una definizione da recuperare, con relativa diffidenza, per un film come “Identità” (2003) che si presenta come un film psicanalitico, diventa un thriller con una punta di horror e chiude con il ritorno alla formula iniziale, con una spruzzatina di paranormale per insaporire il cocktail. 
Eppure il gioco riesce nel costruire, con un racconto “avanti e indietro”, le strane coincidenze che provocano la presenza di personaggi diversi – una prostituta, una famiglia incidentata, un poliziotto che accompagna un pluriassassino, eccetera eccetera – dentro lo stesso motel, un ostello alla Norman Bates, isolato lungo la strada trasformata da un violento nubifragio in un impraticabile acquitrino. Da un incidente stradale che dà il via all’ecatombe discende una teoria di misteriosi delitti, in quel ricetto da cui è impossibile uscire a causa del persistente e ossessivo nubifragio. E qui si scatena un gioco a “chi è stato” che ricorda i dieci piccoli indiani di Agatha Christie a cui il film dichiara di ispirarsi. Quando finalmente riusciamo a individuare il colpevole il gioco si rovescia e siamo daccapo con la psicanalisi e le doppie personalità, e poi ancora...
Comunque, a parte il connubio spericolato, il trucco riesce, perlomeno al cinquanta per cento, e la storia “gialla” è ben narrata, con un John Cusack convincente, un Ray Liotta un po’ di maniera e una seducente Amanda Peet. Diretto da James Mangold, con un efficace commento musicale del collaudatissimo Alan Silvestri.

HELL - SCATENA L'INFERNO



Un nuovo Van Damme, il prolifico attore belga che è uno delle colonne portanti dell’incontro fra le arti marziali e il cinema. Più prestante di Chuck Norris, senza le variazioni buffonesche di Jackie Chan e, naturalmente, senza il carisma di Bruce Lee e dei suoi epigoni. Sono le arti marziali “composite”, come le amministrano il massiccio Steven Seagal e l’atletico Dolf Lungren: un miscuglio di tecniche diverse, un ibrido fra lotta, pugilato, kungfu e zuffa senza regole. Con tale bagaglio Van Damme ha interpretato e continua a interpretare una lunga serie di film cercando di volta in volta di avvicinarsi a personaggi plausibili sul piano del film d’avventure e d’azione, talora con un spunto di “giallo”. 
Stavolta è un brav’uomo condannato all’ergastolo per aver ucciso lo spietato stupratore di sua moglie, e imprigionato in un carcere russo in anni imprecisati che, come recita il titolo, è un inferno vero e proprio. L’aneddotica è la stessa del cosiddetto “genere penitenziario”: militari iniqui e cinici, condannati abbrutiti e violenti, vittime degradate, aguzzini che si divertono a fare scommesse sul risultato degli incontri fra i reclusi, provocati nel cortile con il plauso e l’incoraggiamento dello stesso comandante. Fra il colosso nero che ha rifiutato la violenza e un Van Damme che, suo malgrado, deve battere e vincere il più brutale dei suoi colleghi carcerati, correndo il pericolo di diventare lui stesso un perverso e ottuso strumento di violenza. 
Soprattutto singolare, in questo “In Hell”, è il verismo brutale e violento degli scontri, non enfatizzato o vaccinato dalla “bellezza” dell’arte marziale. Scontri che sono lotte furiose, violente, sadiche, raccontate con realismo ed evitando la brutalità un po’ addomesticata e retorica dei film del genere. Non ci viene risparmiato nessun passaggio: il carcerato violentatore, la corruzione e il mercimonio, le bande, il sadismo e cinismo dei militari, e inoltre il finale non è più consolatorio dello stretto necessario. 
Un Van Damme da segnalare.

BREAKOUT KINGS



Sono a metà della prima stagione (2011-12). Dopo il pilot, che dovrebbe fornire la chiave ma che costituisce un avvio un po’ pasticciato, la serie prende quota. “Breakout kings”: la trovata è originale. Una pattuglia formata da esperti in evasione, perché evasi o ex-evasi a loro volta, forma una squadra a servizio della polizia per catturare, grazie alla loro esperienza diretta, gli evasi pericolosi, il tutto in cambio del trasferimento in un carcere di minima sicurezza e della sottrazione di un mese di detenzione per ogni fuggitivo riacciuffato; naturalmente in caso di fuga l’accordo salta. Ogni membro del gruppo ha poi la sua specializzazione ed un ruolo ben predefinito. Ma a scanso di equivoci un cartello in sovrimpressione, ad ogni fine puntata, avverte prudenzialmente lo spettatore: guardate che è una “balla”, un artificio narrativo, squadre così non esistono né possono esistere.
Pretesto a parte, dopo il rituale pilot, ogni episodio sviluppa sostanzialmente il “caso” della cattura di un evaso, tracciandone la fuga e la storia e mettendo in secondo piano lo sviluppo – non invadente, per fortuna - delle storie personali dei singolari cacciatori. E la serie finisce per diventare né più né meno che un poliziesco ben costruito, di produzione americana e girato in Canada, un “crime drama”. 
Sappiamo che la serie si è interrotta dopo la seconda stagione e complessivi 23 episodi. Basandoci su quelli visti sin ora il giudizio è moderatamente positivo, sempre all’interno del “genere” e senza pretese di eccessiva novità.

TALLULAH


Non a caso fra i produttori di “Tallulah” figura anche quel Chris Columbus a cui dobbiamo una serie di film cosiddetti per famiglia, molti dei quali dominati dalla presenza di marmocchi o bambini molto piccoli, gioia e disperazione dei rispettivi genitori. 
Stavolta ci allontaniamo ma di poco: Tallulah, giovane dropout che vive da nomade in un furgone, capitata per caso in una stanza d’albergo per rubacchiare come suo solito, viene inopinatamente “catturata” da una infante di un anno che le appare trascurata sino all’inverosimile da una madre più incosciente che snaturata. E se la porta via. Troverà rifugio dalla madre del suo ultimo compagno a cui fa credere che la bimba sia figlia di suo figlio e, nel corso di una convivenza precaria e stravagante, porterà un sorriso di strana spregiudicatezza nella vita di una donna precocemente arresasi alla gioia di vivere. E il film diventa soprattutto una variazione sulla maternità, esaminata in tre accezioni diverse. 
Avventura tragicomica a relativo lieto fine, scritta e diretta da Sian Heder, con profusione di quelli che una volta si chiamavano buoni sentimenti, insomma un divertimento soft con un pizzico di poesia. Tutto in questo filmetto fatto a mestiere, con una protagonista simpatica, anzi con tre: Tallulah, interpretata da Ellen Page, giovane ma già navigata attrice canadese, la madre svaporata Tammy Blanchard) e la madre spigolosa e burbera (Allison Janney), tre madri che in qualche modo finiscono per aggrapparsi l’una all’altra. 
Con l’aria che tira di questi divertimenti rosa con un pizzico di umorismo, ma che fanno anche un po’ riflettere, forse ne abbiamo bisogno.

THE HUNGER GAMES


Altro recupero del genere apocalittico che proliferò negli anni Ottanta-Novanta e che resiste ancora, da “Fuga da New York” a “Io sono leggenda”, alla serie post-atomica di “Mad Max”, per limitarci solo a pochi titoli. Una sorta di sottogenere è quella dedicata ai “giochi estremi” in cui alcuni contendenti si disputano un trionfo che ha come corrispettivo la morte. Chi fa della sociologia a buon mercato potrebbe leggervi la paura della dissoluzione di un mondo e di una civiltà, terrore che resiste, magari “sotto traccia” a determinare le nostre inquietudini giornaliere. 
Considerazioni a parte “The Hunger Games”, grosso successo di appena quattro anni fa (2012), tratto da un romanzo di fantascienza di Suzanne Collins, ci presenta un mondo post-atomico – qui individuato attraverso delle fogge e dei costumi bizzarri che sono un pot porri di reminiscenze e di anticipazioni – dove l’umanità sopravvissuta deve offrire a un Dio innominato e sconosciuto l’obolo annuale di un eccidio fra cacciatori-cacciati scelti fra i rappresentanti giovani dei vari distretti. Competizione spietata fatta di uccisioni selvagge e minutamente controllata, tramite gli strumenti di una raffinata civiltà tecnologica, da pochi demiurghi altrettanto e più spietati, che mutano le regole a loro capriccio e moltiplicano i pericoli a loro beneplacito. Vinceranno naturalmente i due giovani protagonisti ma vincono ancor di più i creatori e reggitori di quella cinica civiltà dello spettacolo che fa di questa caccia all’ultimo sangue un grande show per svagare e sottomettere il popolo. 
Il film, meno originale di quanto pretenderebbe di essere, è ben condotto e ben interpretato - ma questa nel cinema statunitense è la regola – costruito con l’aiuto di sapienti effetti digitali a potenziare e rendere coinvolgente e alienante insieme il background. Ma direi che, nonostante tutto, ci tocca emotivamente meno di altri. Da notare la giovane protagonista Jennifer Lawrence, il conduttore del macro-spettacolo di morte Stanley Tucci, mentre Woody Harrelson si difende sempre alla grande anche in ruoli che lo sottovalutano. Nel ruolo ormai topico del patriarca, di film in film con connotazioni positive o negative, l’immancabile Donald Sutherland.

STRANGER THINGS


Dopo sgradevoli vicissitudini personali che ne hanno spezzato la carriera e alcune successive deludenti prove, torna al lavoro Winona Rider, singolare attrice più volte candidata agli Oscar e di cui ricordiamo memorabili interpretazioni, dagli esordi da adolescente alle indimenticabili presenze in “Edward mani di forbice” (1990, “La seduzione del male” (1996), ecc. Logorata dagli anni ma più dagli infortuni è il fiore all’occhiello di questa breve serie in otto episodi che affronta le avventure, fra metapsichiche e fantascientifiche, di una bambina scampata alle torture della solita CIA o cricca similare, cioè ad una congrega consacrata a compiere spericolati esperimenti per allargare gli orizzonti mentali dei fanciulli che producono la proliferazione di fenomeni abnormi, collocati in un’altra dimensione del mondo reale, cioè in un "sottosopra" popolato da mostruose creature. 
Autentici protagonisti della serie un gruppo di bambini – sul tipo di quelli che salvano E.T. - intenti a strappare la piccola sopravissuta alle grinfie dei cattivi. Cattivi violenti e spregiudicati, veri e propri mostri tipo “Alien” e una bambina che ha sviluppato strani poteri di cui è padrona e schiava, il tutto nel clima di paranoia degli anni della guerra fredda, con i suoi laboratori segreti e le sue recinzioni.
Creata da due giovani fratelli, Matt e Ross Duffer, la serie attinge a piene mani a quanto il cinema ha prodotto nel genere ed è debitrice delle atmosfere e degli incubi di Stephen King ma anche ai film di John Carpenter, Steven Spielberg, Gorge Lucas, Rob Reiner. Non per nulla è stata definita dagli stessi autori come “una lettera d’amore ai classici degli anni ottanta che hanno affascinato una generazione». A questi classici la serie è debitrice ma è anche cucinata secondo le odierne formule dei serial tv che ad una logica narrativa di tipo consequenziale hanno sostituito una costruzione parcellizzata, per frammenti narrativi, in grado di distribuire i plot lungo l’arco di un episodio e poi dell’intera storia, senza la necessità cogente che i conti tornino sempre, ammettendo nel racconto ambiguità e anomalie. 
Brillante la scelta dei tre ragazzini che formano il gruppetto e degli altri interpreti fra cui spicca la stupefacente Millie Bobby Brown, due occhi non facili da dimenticare.

INCEPTION



Sogno o son desto?
Solo una mente disastrata – nella fattispecie quella di Cristopher Nolan sceneggiatore e regista del pluripremiato “Inception” – può aver creato una storia ingarbugliata e cervellotica come questa, che assembla e distrugge materiali sufficienti per almeno quattro o cinque film diversi.
Tentiamo di tradurre: un certo signore esperto nel penetrare negli altrui subconsci per "estrarre" segreti dalle menti delle persone mentre queste stanno dormendo e in grado di approfittare degli stati di sonno altrui, per insufflarci particolari idee e tensioni, cade vittima di un potente magnate giapponese che, avendo provato a suo danno le capacità dell’uomo, lo assume con ricatto per tentare di “deviare” le spinte programmatiche del giovane rampollo del suo concorrente.
Sembra facile, ma bisogna stabilire una sorta di coincidenza fra i sogni del malcapitato e quelli della squadra di disturbatori, ognuno dei quali, in modo autonomo ma coordinato, possa penetrare in quelli della vittima. L’operazione viene messa in atto durante un viaggio aereo e le varie avventure sognate avranno precisi punti di coincidenza, quali gli scontri, le difficoltà, eccetera. A monte e a valle della storia c’è poi il problema di come fare a distinguere le storie sognate da quelle vissute, in breve il sogno dalla realtà. L’espediente utile è quello di afferrarsi ad un micro-oggetto reale – tipo la trottolina che è la incombente metafora di tutto il film – che possa indicarci lo spartiacque. 
Detta così sembra quasi facile. Ma dentro questa storia ce ne sono poi altre: come la tenera storia d’amore fra il protagonista e la moglie defunta – suicida per non aver saputo distinguere i due piani – e reincontrata solo nel sogno. Fatto sta che il film alterna una serie di avventure sognate e concomitanti: veri e propri film nel film, film d’azione dei quali – per dirla alla romana – “nun ce ne po’ fregà de meno”, proprio perché li sappiamo sognati. Tanto materiale disperso in un procedere cervellotico, frantumato come ogni sogno che si rispetti ma privo di una qualsiasi logica, neppure di quella della fantasia. 
Un turbinio di mezzi, di effetti speciali, di location mirabolanti colte in sei diversi paesi, con un cast stellare a disposizione (da Di Caprio alla Cotillard, a Ellen Page, alla illustre comparsata di Michael Caine) che evidentemente è riuscitio a stordire critici e spettatori se il film ha una lista di palmarès che somiglia a un elenco telefonico. 
A me ha provocato un prepotente invito al sonno, quello vero stavolta.