AMORE, CUCINA E CURRY



Sfornato dalla sapiente cucina di Steven Spielberg, questo “Amore, cucina e curry” (2014) parla d’integrazione, di profughi indiani, di cucina molecolare, di stelle Michelin e d’amore. 
Un piccolo film firmato dalla sapiente regia di Lasse Hallstrom, che racconta con garbo una piccola storia: una famiglia di ristoratori indiani emigra in Francia e approda, pronubi i freni della loro macchina che inaspettatamente vanno in tilt, in un certo paese, dove il patriarca ha la buona-cattiva idea d’impiantare il proprio ristorante etnico proprio di fronte al locale raffinato gestito da una zitella gelosa della propria stella Michelin. Ma il giovane rampollo indiano è un prodigio ai fornelli e la stessa cocciuta antagonista - che poi sarebbe Helen Mirren – dopo aver tentato d’umiliarlo, dovrà riconoscere la sua bravura e lo arruolerà per lanciarlo nel mondo dell’alta gastronomia. Il giovane va a Parigi, sfonda nel mondo della cucina molecolare, fatta di inganni e non solo gastronomici, poi ci ripensa, torna al paesello per ritrovare l’amore, le soddisfazioni, una famiglia affettuosa e una cucina senza trucchi. Grande “embrassons nous” e finale in gloria. 
A volte scontato e prevedibile, a volte ingenuo, il filmetto va avanti spedito e si va vedere con amabilità. Un po’ buonista e alquanto improbabile è una fiaba culinaria ben costruita e diretta, adatta alle famiglie. La Mirren fa quanto le suggerisce il copione ed è più che in grado di cavarsela con classe. Tutti simpatici gli altri interpreti, e ogni ingrediente è usato correttamente, come si addice a una cucina ben avviata.

IMPERIUM


Harry Potter contro i neonazisti.
Daniel Radcliffe, alla seconda o terza sortita da adulto fuori dal personaggio Harry Potter che lo ha tenuto impegnato sin dalla più tenera infanzia, è un giovane agente dell’antiterrorismo della FBI, un po’ ridicolizzato da quel fisico gracile e dai grandi occhialoni da vista. Sino a quando un’agente scaltra e dall’occhio lungo (Toni Collette) lo introduce come infiltrato nel mondo dell’estrema destra fascista, razzista e neonazista. 
Un mondo che, stando alla rappresentazione che ne fa in questo “Imperium” il regista Daniel Ragussis, qui alla sua opera prima, è vasto e differenziato, dagli estremisti ai movimenti razzisti tipo Ku Klux Klan, agli illusi in relativa buona fede, ai facinorosi di ogni risma. E Daniel, trasformandosi quanto basta, riesce a penetrare in quel mondo esplorandone la fauna, le diverse cellule terroristiche, ed entrando addirittura in contatto con il capo carismatico, paladino nei medium di una nuova America che, alla fine, si rivelerà solo un cialtrone mettendo in crisi la credibilità dell’agente. Ma Harry Potter non si arrende e alla fine si riscatterà sventando un micidiale attentato e impedendo l’esplosione di un micidiale ordigno, salva così un’innocua famigliola e provoca l’arresto dei principali responsabili. Tutto bene quindi e il piccolo eroe può tornare alla sua scrivania fra gli applausi dei commilitoni.
Il film, ispirato alle memorie dell’agente FBI Michael German, che trascorse venti mesi tra il 1992 e il 1993 sotto copertura in un gruppo di neonazisti, ci immerge in un mondo inesplorato,di cui ci fa conoscere le varie facce, gli illusi in buona fede, i facinorosi, i nostalgici, i delinquenti, i cialtroni. Una disamina accurata che s’intreccia a un racconto saldo, “teso, coinvolgente ed inquietante”, come lo ha definito il “Los Angeles Times”. 
Ci resta il dubbio – per nostra personale ignoranza - su quali siano o siano state le concrete dimensioni del fenomeno, che qui ci appare sovrastimato, tanto da rivaleggiare con il terrorismo islamista. Quanto a Daniel Ratcliffe, in un ruolo difficile quanto impervio, se la cava in modo egregio.

SANTA CLARITA DIET



Ho visto solo le prime tre puntate della nuova serie Netflix “Santa Clarita Diet”, cioè la dieta di Santa Clarita, che gioca con l’horror ma abbandonando il grottesco per schierarsi decisamente sul fronte della commedia. 
Una coppia di sposi con figlia adolescente che fanno gli agenti immobiliari, volutamente analoga alle coppie piccoloborghesi tanto amate dalla tv statunitense. Solita caccia al cliente, solita competizione con gli agguerriti colleghi. Il nuovo è dato dalla predilezione della donna, Sheila, per la carne umana, di cui è inguaribile buongustaia, fabbisogno alimentare che cerca di procurarsi in modo disinvolto, senza creare grossi disagi alla famiglia. In poche parole la donna è una zombie che addenta la preda di turno senza troppi scrupoli e la consuma sul posto, “nature”, creando qualche inconveniente per l’igiene di casa e qualche disagio ai propri familiari: lo splatter non perdona! 
Lo spunto è sorretto dalla verve di Drew Barrymore, che abbiamo lasciato giovinetta da fiaba e troviamo attempatella e malridotta – gli anni passano per tutti - ma sempre con quegli occhietti birichini, ormai affrancatosi da quel cognome che ha costituito per lei un ingombrante passaporto per la notorietà: come si fa a buttarsi via se ti chiami Barrymore, figlia di attrice e soprattutto pronipote dei tre “mostri sacri” dello spettacolo americano? E invece sì, spero che la serie vada avanti bene, so che ha già ricevuto critiche positive, non ultimo elemento di curiosità la presenza della giovane attrice australiana Liv Hewson, che abbiamo già visto pimpante e irresistibile nella miniserie grottesca “Dramaworld”.

HELLRAISER: NON CI SONO LIMITI


Mostri mostri e ancora mostri. “Hellraiser” (1987), uno dei film-cult per gli appassionati dell’horror, nonché capostipite di serie (con otto sequel all’attivo), accanto ai tre “La casa” di Sam Raimi, ai nove “Nightmare” con Freddy Krueger e pochi altri. 
Una “scatola magica” scatena strani sortilegi a chi la manovra e fa apparire mostri al cui confronto Alien e company sono una compagnia di allegri bontemponi: sprizzano saette luminose, fra grossi ratti che occupano le soffitte e uncini volanti che straziano le carni del malcapitato parcellizzandone il corpo, per cui alla vittima smembrata non resta che sia attingere sangue da nuove vittime per ricostruirsi alla meno peggio. Tre ulteriori mostri presiedono all’intero processo, tra cui quello, diventato “icona” della serie, con il volto crivellato di aculei, tipo agopuntura giapponese estremizzata. E poi altri mostri fuori serie, lucertoloni con varie teste, draghi eccetera, il tutto immerso in un denso sanguinolento repellente appiccicoso liquido, che sbrodola per ogni dove. 
Contrasta con tanta perizia artigianale usata per i trucchi la quasi casuale selezione degli attori, alcuni dei quali - per non dire quasi tutti - sembrano scelti fra gli occasionali avventori del bar in fondo alla strada o del negozio di calzature lì vicino per quanto sono improbabili e approssimati. Evidentemente il regista Clive Barker ha dovuto fare di necessità virtù creando un film con pochi stentati mezzi, che peraltro gli han fatto aguzzare l’ingegno. 
Che dire di più? Splatter, orrore, paura, mucillagini umane, effetti speciali caserecci ma efficaci per due ore di svago, un po’ di voltastomaco per i temperamenti delicati, ma otto sequel testimoniano l’efficacia della formula.

LA FESTA DELLE FIDANZATE



San Valentino non perdona!
Bob Odenkirk ha una storia curiosa: buona carriera alle spalle come sceneggiatore – anche il mitico “Saturday night live” nel suo carniere - e inventore-conduttore di programmi, poi con la serie “Breaking Bad”, dove interpreta l’avvocato azzeccagarbugli e fanfarone, nonché, come si suol dire, rotto a tutto, “sfonda alla grande” e il suo personaggio è di quelli che si fanno ricordare. Pago del successo ma non domo si produce in un prequel che racconta l’educazione sentimentale del nostro avvocato: “Better call Saul”, due serie già diffuse, abbastanza divertenti, e terza già annunciata. 
Netflix ora si presenta con un film ambizioso, prodotto da lui stesso e targato 2017, “La festa delle fidanzate”, su uno scrittore disoccupato, esperto in bigliettini d’auguri sanvalentiniani che, invischiato in un complotto omicida, per uscirne vivo deve creare il biglietto augurale perfetto. Incompreso, un po’ cialtrone ma senza la sua solita verve comico-grottesca, il personaggio di Bob Odenkirk si aggira fra malavitosi e bigliettini rosa portando a spasso per settanta minuti una faccia costantemente funerea con un’espressione che non cambia mai. 
Un film che – sulla carta, forse – vorrebbe essere un “grottesco” ma non lo è. La storia, in realtà un po’ futile, non scatta e non si capisce se la confezione voglia essere patinata ad uso dei critici o sia semplicemente e volontariamente trasandata. Insomma se non un infortunio certo una battuta d’arresto nella storia dell’avvocato cialtrone che ci aveva fatto – e che si spera ci farà – sinceramente divertire.

DERAILED - ATTRAZIONE LETALE

 


Uno di quei thriller – come si diceva una volta – “fatti a mestiere”. Con i buoni un po’ ingenui e fresconi che si fanno irretire dalla prima prospettiva di un’appetitosa avventuretta e i cattivi che più cattivi non si può.
Clive Owen è un buon padre di famiglia tutto casa e ufficio. Ma sul treno che quotidianamente lo conduce al lavoro incontra la fascinosa Jennifer Aniston e prima o poi è destinato a cedere al suo fascino, peraltro dispensato con il doveroso ritegno. Raggiungono un’alcova provvisoria, da squallido romanzetto borghese, ma nel momento culminante dell’amplesso irrompe il violento, cattivissimo Vincent Cassell che, dopo aver malmenato l’uomo e stuprato la donna, sottopone il primo a una serie di progressivi e crescenti ricatti monetari. 
Lui ci prova a sottrarvisi ma non vuol creare fastidi alla compagna d’avventure e poi il cattivo è scatenato e senza scrupoli e, nonostante Owen sia quel pezzo d’uomo che sappiamo, non può sfuggire alle ripetute minacce con relativi pestaggi. Poi il rovesciamento inaspettato, che evitiamo di raccontare per non deludere i pochi che non avessero visto questo film del 2005. E che volessero vederlo. 
Ne vale la pena, perché il film è ben costruito, dosa ma non risparmia emozioni, è sufficientemente violento, la Aniston “se la tira” ma funziona, Owen è un po’ fuori parte e Cassel è più che bravo, come al solito.

DRUNKEN MASTER II



Nella Cina che fu, in anni di dominio inglese, mentre i poveri danno l’assalto a un treno sovraccarico, un medico, accompagnato da suo figlio e da un servo, si trova coinvolto in una rissa attorno a un pacco misterioso che in realtà cela un antico sigillo. Dopodichè dei pacchi misteriosi, degli antichi sigilli e dei medici cinesi non ce ne importa più niente perché il nostro interesse, o meglio la nostra spasmodica attenzione, viene totalizzato dalle acrobazie del figliolo che interpreta le arti marziali come fossero un gioco terribile e delizioso insieme. 
Quel figliolo scatenato, per chi non lo avesse capito, è Jackie Chan in una delle sue grandi interpretazioni d’annata, coadiuvato stavolta dall’estro comico della fanciulla che gli fa da madre e da una schiera di agguerriti combattenti che gli si catapultano contro. Il film, “The legend od Drunken Master” (1994) , in realtà sequel del film del 1978 che aveva rivelato le virtù comico-atletiche e lo stile caratteristici che lo renderanno famoso; Jackie, è formalmente corretto, con tante comparse e tanti ambienti ben ricostruiti, ma è sostanzialmente una pedana per i lanci acrobatici dell’atleta comico di Hong Kong, qui in stato di grazia, ancora non ammaccato come da qualche anno a questa parte. Jakie Chan che affronta schiere di nemici con la sua solita ironia, fingendosi terrorizzato e inseguito mentre l’ammazzasette è proprio lui. Che dire di più? Un godimento di due orette, irrepetibile quanto soddisfacente.
Le arti marziali sancirono la loro affermazione ufficiale nel cinema con la meteora Bruce Lee che cancellò tutta una tradizione di sfide a mani nude e ad armi pari, a cazzotti o al colpi di pistola introducendo la curiosa strana liturgia del kung-fu. Da allora quel modo rigoroso e insieme scenografico di combattere ha influenzato anche indirettamente tutte le sfide cinematografiche e addirittura tutto il cinema d’azione: inutile fare citazioni.
A questo universo “marziale” Jackie Chan ha aggiunto sin dal suo apparire la decisa variazione comica. Non l’atleta marziale che offende e distrugge l’avversario ma qualcuno che si difende in modo furbesco tentando di sottrarglisi e in questa sua buffa difesa sprigiona energia, invenzione, acrobatismo. Unendosi talora in sodalizio con attori occidentali, unendo Hong Kong a Hollywood, Jackie Chan ha inventato un genere. I suoi scontri sono invenzioni, balletti, giochi dove la violenza si nasconde dietro lo sberleffo.

IL DRAGO DEL LAGO DI FUOCO


Una fiaba, una lunga, articolata, un po’ cervellotica fiaba di quelle costruite come una serie di peripezie attorno a un giovane personaggio, nata con i fratelli Grimm o forse prima ancora e prolungatasi sin oltre sino la saga di “Harry Potter”, ma altrettanto fornita di accessori magici: la leggenda di San Giorgio trascritta in termini fiabeschi, con il grande drago sputafuoco in attesa di essere rifornito – mediante periodica estrazione a sorte - di tenere commestibili fanciulle e Galen, giovane apprendista stregone, che cerca di neutralizzarne i malefici poteri per porre fine all’eccidio di verginelle. 
Un film prodotto dalla Disney nel 1981, in un’epoca per noi un po’ remota in cui si potevano ancora infliggere ai minori storie sanguinolente e un po’ orrifiche, ben lontane dall’attuale polically correct o buonismo che dir si voglia, secondo l’accezione preferita. Un film che precorre il genere fantasy anticipandone tutti gli elementi meno uno, dato che non si è entrati in pieno nell’era digitale con i relativi effetti, e quindi il mondo fantastico viene rievocato sostanzialmente solo a base di apparati scenografici, modellini ed effetti spesso costruiti con sapienza artigianale. Anche se - forse per la prima volta – qui si fa uso del sistema go-motion creato da Geoge Lucas. 
Forse proprio per questa... “limitatezza digitale” la fantasia può ancora prendere le distanze dalla meccanica e straordinaria molteplicità d’invenzione che apparenta i nuovi film ad altrettanti videogiochi. Scenografie fantastiche ma identificabili roccia per roccia, lago per lago. Lotte, duelli e competizioni violente ma con uso limitatissimo di superpoteri, niente balzi e voli facilitati dal computer. Ragion per cui, rivisto oggi, le invenzioni di allora non sono sufficienti a eliminare un modesto tasso di noia.

THE WOMAN IN BLACK


Harry Potter fa il suo ingresso ufficiale nell’età adulta con questo film del 2012 che lo vede non solo protagonista ma gestore unico della vicenda, eccezion fatta per le apparizioni spettrali, centellinate ma “da urlo”, che il nostro incontra nella casa maledetta. Il tutto ritratto secondo la collaudata tradizione del cinema inglese e in particolare della Hammer, produttrice storica degli orrori made in Britain.
Esaurite queste considerazioni iniziali veniamo alla storia, tratta da un romanzo gotico di Susan Hill. Kipps è un giovane avvocato, moglie defunta e figlioletto amatissimo, che riceve dal suo burbero principale l’incarico di vagliare le carte di un’ereditiera scomparsa. E capita in questo paese ai confini del mondo, in una casa isolata dalle maree che periodicamente invadono la strada di collegamento con il mondo - si fa per dire – civile, dato che il paese è pieno di gente che ostile che imputa alla casa maledetta la morte prematura e periodica dei propri figli. E nella casa , un vecchia casa arredata con un gusto scenografico sapiente, quale solo gli inglesi sanno usare quando si tratti di resuscitare ambientazioni e atmosfere del passato - il giovane incontra o si scontra con strane presenze, centellinate dal regista ma sottolineate con inquadrature ed effetti sonori sconvolgenti e adrenalinici. 
Storia lugubre e tristissima e finale ancor più triste. Ma il film, pur soggiacendo alle regole dell’horror, è ben fatto e il nostro Harry Potter, al secolo Daniel Radcliffe – condannato ancora una volta ad aver a che fare con magie e strane presenze - se la cava con dignità. Dimenticavo di citare l’allucinante sequenza introduttiva con il suicidio cumulativo delle tre fanciullone stile Kubrick.